Insieme a Sean Connery, Roger Moore è stato uno 007 amatissimo. Elegante, seduttivo, risoluto, aveva vestito sette volte i panni della super spia creata da Ian Fleming. Aveva il cancro, nemico peggiore di qualsiasi villain russo o cinese, una roba che arriva e non perdona. Lunga carriera cominciata in teatro ed esplosa in Tv, in numerose serie di successo, con naturalezza prende l’eredità di Connery nel 1973 in Vivi e lascia morire, interpretando un ruolo che sembra subito cucito addosso alla perfezione, forte anche di una fama consolidata su piccolo schermo: è Wilfred in Ivanhoe, poi entra nel cast di Maverick, prima di vestire i panni di Simon Templar, sorta di Lupin gentiluomo, nell’indimenticabile serie Il Santo. A proposito ve la ricordate la sigla cantata da Indiana?
Ecco, bastano poche immagini di Moore, tra belle donne e macchine sportive, per comprenderne il personaggio, ancora prima di farsi 007. Dal 1962 al 1969, sette anni che lo trasformano in sex symbol. Sembra l’apice, e invece un successo ancora più clamoroso (in Europa, meno negli Stati Uniti) arriva nel 1971, quando Robert S. Baker si inventa una delle coppie più stravaganti del piccolo e grande schermo. Non sono un magro e un ciccione, uno svitato e un avveduto, Attenti a quei due gioca carte diverse: Moore “sposa” Tony Curtis, nei panni del Lord inglese Brett Sinclair, complice del milionario eccentrico Daniel Wilde, statunitense dai modi più spicci. Amici e al tempo stesso rivali, si lanciano in avventure per mezza Europa, fascinosi, irresistibili, scanzonati, a loro modo comici. Che bella era anche questa sigla!
Le donne impazziscono, gli uomini anche: chi non vorrebbe correre in auto lussuose sotto il sole della Costa Azzurra! La serie chiude dopo due anni. Moore diventa Bond, James Bond! Curtis ritrova il sorriso, dopo aver visto la sua parabola precipitare pericolosamente negli anni ’60.
Poi è storia di cinema, grande medio piccolo cinema. Fa parte dell’Oca Selvaggia, uno dei quattro, ma soprattutto ci piace ricordarlo in quel guazzabuglio demenziale che è La corsa più pazza d’America (1981), cult di Hal Needham in cui gigioneggia ironicamente sul suo personaggio.
Anziano, ha preferito centellinare i copioni, evitando di annacquare un’immagine che ancora oggi rimane indelebile, elegante fuori e sul set.
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