Il Verbo dei missionari…
Silence era da anni la grande ossessione di Scorsese, il grande regista italo-americano lesse il romanzo di Shûsaku Endô dopo aver diretto L’ultima tentazione di Cristo nel 1988 e da quel momento l’idea di farne un film non lo ha più abbandonato. Scorsese iniziò subito a collaborare con lo sceneggiatore Jay Cocks per scrivere l’adattamento del libro e poco dopo, nel 1990, stipulò un accordo produttivo con Vittorio Cecchi Gori. Ecco spiegato perché il nome del produttore italiano compare a sorpresa nei titoli di coda del film.
Silence avrebbe dovuto essere realizzato già a fine anni ’90 e poi a metà 2000, ma Scorsese ci rinunciò per progetti meno complicati fisicamente e finanziariamente, nel corso di questi anni il regista ha ammesso di aver letto e riletto quel romanzo più volte per meglio entrare in questa storia modellata su personaggi realmente esistiti, Padre Ferreira e il gesuita italiano Giuseppe Chiara, su cui Endô ha costruito il personaggio di Padre Rodrigues. C’è anche da dire che in realtà Silence è il secondo adattamento cinematografico del romanzo: il primo è giapponese, ed è stato diretto da Masahiro Shinoda nel 1971.
Il film girato in pellicola, abbandonando il digitale che aveva usato negli ultimi film, è ambientato nel 1633. Due giovani gesuiti, Padre Rodrigues (Andrew Garfield, già visto nei panni di Spiderman e in The Social Network) e Padre Garupe (Adam Driver, il protagonista di Paterson), rifiutano di credere che il loro maestro spirituale, Padre Ferreira (Liam Neeson), partito per il Giappone con la missione di convertirne gli abitanti al cristianesimo, abbia commesso apostasia, ovvero abbia rinnegato la propria fede abbandonandola in modo definitivo. I due decidono dunque di partire per l’Estremo Oriente, pur sapendo che in Giappone i cristiani sono ferocemente perseguitati e chiunque possieda anche solo un simbolo della fede di importazione viene sottoposto alle più crudeli torture. Una volta arrivati troveranno come guida il contadino Kichijiro (Tadanobu Asano), un ubriacone che ha ripetutamente tradito i cristiani, pur avendo abbracciato il loro credo.
È un film talmente denso e stratificato che si rischia di scrivere delle banalità, è certo che Scorsese in molto del suo cinema ci ha parlato del rapporto dell’uomo con la fede, tema che ha affrontato esplicitamente in L’ultima tentazione di Cristo e Kundun, ma che era presente anche in molti altri. In questo nuovo lavoro mette al centro tutte le complesse questioni intorno al significato di fede e ha la capacità di sollevare interrogativi enormi intorno alla spiritualità, alla natura umana e alla Storia. Sicuramente è un film che va oltre al primo livello di lettura, che potremmo definire storico, con la persecuzione dei cristiani da parte dei buddisti, un livello di racconto crudo e dettagliato che lascia poco all’immaginazione. Scorsese però, fin dall’inizio, ci dice che il punto è un altro, è la Parola. Lo si capisce dalla decisione di unire ai molti dialoghi tra i protagonisti tre voci fuori campo (Padre Ferreira nel prologo, poi Rodrigues e poi un mercante olandese). Il regista sceglie la parola, e non poteva fare altrimenti, per raccontare la vita dei missionari. In questo c’è tutto il senso del film: parole e dialoghi schiacciano le immagini, tolgono forza all’estasi del racconto che viene quasi asciugato dal livello verbale. Sono preti che spiegano la parola di Cristo, raccolgono confessioni, perciò la scelta di Scorsese è coerentissima col racconto. Andiamo così a seguire le vicende dei due missionari e delle difficoltà nello spiegare la propria religione ai convertiti giapponesi. In una delle scene madri, i due missionari spiegano per la prima volta cosa è il paradiso ai giapponesi e dall’altra parte c’è una perplessità quasi totale, quasi divertente, come se parlassero due lingue diverse e inconciliabili.
Ma proprio perché è un film sul Verbo, sul linguaggio, sono rimasto a dir poco sorpreso dalla decisione di girare in inglese. Anche se è un film che va molto oltre, è una scelta che tiene il film prigioniero di una lingua insensata per l’epoca: i portoghesi parlano in inglese e tutti i giapponesi hanno una conoscenza di questa lingua così precisa tanto da comunicare con loro. È una scelta bizzarra, un limite molto importante per il film, una scelta produttiva-commerciale che per un grande regista di 74 anni e con più di 40 anni di carriera non mi sarei mai aspettato. Ma forse la si può leggere come un paradosso, due popoli così lontani riescono a comunicare ma non riescono a capire fino in fondo la Fede. È il Paradosso più grande, e forse il dubbio più grosso che ci lascia il film.
Scorsese sceglie di ricorrere alla parola anche quando Rodrigues rimane solo, dopo la separazione con Garupe, e viene fatto prigioniero. Il film ha così una parte centrale con lunghi e ripetuti dialoghi con gli inquisitori che sono spesso arguti (grazie al ghigno sprezzante di Tadanobu Asano), ma sono più vuoti di quel che possono sembrare alla prima lettura. Qui entriamo nella vita personale del missionario da una parte, nella Storia dall’altra. A mio avviso è la parte meno interessante del film che si regge però su una grande prova di Garfield che compie quasi una personale Passione, e anche fisicamente prende a poco a poco forme cristologiche, sintetizzate da Scorsese nel riflesso sull’acqua nella scena del ruscello.
Il film invece cresce a dismisura nella parte finale, potentissima senza dubbio alcuno. Tutta la scelta dell’abiura è straordinaria perché “usciamo” da quel cortocircuito della parola, il tutto ci viene narrato da un punto di vista esterno: il commerciante olandese. È il momento fondamentale della vita di Rodrigues, quando abbandona l’ostinatezza della fede e sceglie l’apostasia per salvare i contadini convertiti. Il dubbio della debolezza umana ci viene raccontato da un “terzo” ed è forse questa distanza, che c’è solo in questa parte finale, che ci fa entrare più in profondità in questa scelta laica e realista. E riusciamo così, come dice lo stesso Scorsese, a capire che “Il silenzio fa rumore, dobbiamo riuscire a sentirlo, scivolarci dentro”.
Claudio Casazza
… mentre Dio tace
Il cinema aveva già tentato la trasposizione del romanzo di Shûsaku Endô nel 1971, sotto la direzione di Masahiro Shinoda, aggiungendo un tassello alla rappresentazione della Storia su grande schermo, che in maniera diversa serve il nostro immaginario, fabbricando immagini discrezionali a supporto della cronaca. Certo, in questo caso, è una rappresentazione per interposto romanzo, ma pur sempre un racconto aperto su questioni, ad oggi non del tutto chiare, che hanno a che fare con la penetrazione del Cristianesimo e del Cattolicesimo in Asia e in Estremo Oriente. Facciamo un salto indietro ancora più ardito: in Pinacoteca di Brera, a Milano, è custodito un dipinto di Tanzio da Varallo, che ha molte affinità con Silence. Fervido ammiratore di Caravaggio, esponente del pensiero controriformista e della maniera piemontese, Tanzio si trasforma in cronista della sua epoca dipingendo su una tela di dimensioni modeste (115×80 cm) una crocefissione collettiva di grande impatto scenografico. Si tratta de Il martirio dei Santi francescani a Nagasaki (1625-1632) e racconta dell’uccisione di ventitre frati avvenuta il 5 febbraio 1597, nel contesto delle persecuzioni dello Shogunato nei confronti dei missionari cattolici e dei cosiddetti “kakure kirishitan”, i cristiani nascosti, le piccole comunità evangelizzate che professavano il Verbo in clandestinità, come in epoca paleocristiana. All’epoca in verità si contavano già pitture e stampe giapponesi sul tragico evento, ma l’opera del pittore, ispirato probabilmente dal testo Vita e imprese dei Martiri del Giappone del francescano spagnolo Marcello di Ribadeneira, è impressionante: possiede dinamicità caravaggesca (in primo piano, la drammatica applicazione delle corde ai polsi di un frate) e impianto compositivo tardo rinascimentale (nella parte superiore), che conferisce ieraticità al martirio degli evangelizzatori sotto la grazia della luce divina.
Non v’è dubbio Dio c’è e si manifesta. La storia si sovrappone alla fede, il linguaggio iconico è chiaro e non ammette equivoci. La ragione è dei giusti e i giusti non sono i giapponesi.
Se Scorsese torna sugli eventi che caratterizzarono parte del lungo medioevo giapponese, non è per costruire una metafora del presente, lettura scontata a cui ci ha abituato da tempo l’industria cinematografica americana, nell’iterazione degli scontri epici tra bene e male, verità e menzogna, giustizia e sopraffazione, in ultima analisi, lo scontro tra civiltà lontane per cultura. Il regista italo-americano l’idea di Silence l’aveva in testa già sul finire degli anni 80, dopo aver letto letto Endô e averci trovato i temi a lui cari, già percorsi in Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno e ne L’ultima tentazione di Cristo. Poi una serie di rinvii, fino al film che conferma Scorsese come uno dei registi più religiosi del nostro tempo. Non intendo con questo un’appartenenza a qualsivoglia confessione: noti sono gli aneddoti che risalgono alla tarda infanzia, relativi ai primi turbamenti, le prime domande irrisolte, la ricerca della presenza concreta di Dio tra gli uomini e non solo nei cenacoli ecclesiastici. La religiosità di Scorsese si manifesta non certo nella professione di fede, quanto nell’infaticabile ricerca di una prova, nella sottomissione al dubbio, lacerante e dispotico agente sulla coscienza, nell’impossibile integrazione di senso di colpa e possibilità di redenzione, che dunque ammette, o quanto meno prende in considerazione, l’esistenza di un sistema etico che non sia frutto semplicemente di impalcature filosofiche atee.
I personaggi di Scorsese, a più riprese affiancato dallo sceneggiatore Paul Schrader, risultano spesso frammentati da una dialettica che non trova pace e che vorrebbe invece risolversi nella ricollocazione sicura dell’uomo in relazione a se stesso, al suo tempo, eventualmente a un Dio rassicurante per il solo fatto di esistere e disegnare parabole. John Civello (De Niro in Mean Streets) come il Cristo interpretato da Dafoe, ma ci metterei anche il Frank (Nicolas Cage) di Al di là della vita e pure il Toro del Bronx, attendono segni tangibili che possano giustificare (consolare) i loro tormenti. Ciò che rimbomba però è un deludente silenzio, che se non sa di indifferenza rischia di essere punitivo e mostrare all’orizzonte il monte Calvario.
Privo per indole dell’ironia di Allen, che da ebreo oltraggioso si riscatta dissacrando la fede in un’entità incapace di farsi viva (in tutti i sensi), la consapevolezza di gridare verso un Dio sordo (e quindi muto) avvicina Scorsese a Bergman (influenzato però dall’austera “cura” protestante).
In Silence oltretutto il regista alza il tiro, complici lo sceneggiatore Jay Coks, il direttore della fotografia Rodrigo Prieto e lo scenografo Dante Ferretti. Rinunciando al suo cinema funambolico (ed è curioso che Silence arrivi dopo le distorsioni del neocapitalismo di The Wolf of Wall Street), le immagini asciutte, prive di musica extra-diegetica e qualsivoglia orpelli, allargano il problema: non c’è più in ballo solo la Manifestazione divina, ma la solidità di un impianto evangelico che possa rispondere alle istanze profonde di tutta l’umanità, in qualsiasi buco di mondo. Per questo motivo, e ancora di più, Dio non può non manifestarsi; e per questo motivo il silenzio diventa ancor più angosciante e segno di un abbandono insopportabile.
Padre Rodriguez, che si interroga su come seguire Cristo, tenta una disperata chiamata al Padre (ed è un peccato che l’attore non sempre regga la parte). Troppo didascalica certamente l’immagine di Garfield che si specchia in una pozza d’acqua per confondersi con un Cristo che ci ricorda El Greco, ma forse non c’era alternativa per rappresentare la via della trasfigurazione. Il missionario non deve però piegarsi al volere del Padre e accettare il martirio inchiodato alla croce, identificando in Giuda – l’apostolo più importante tra i dodici – il veicolo necessario al sacrificio e alla chiamata alla salvezza. Rodriguez deve decidere da solo, senza più nemmeno il confronto/conforto di padre Garupe, se salvare centinaia di vite umane abiurando o restare fedele all’idea del martirio collettivo in attesa di un paradiso difficile da spiegare ai buddisti giapponesi. Dilata il tempo della decisione – ed è tutta la lunga seconda parte del film, dopo gli entusiasmi iniziali per l’accoglienza nella nebbia (simbolica?) dei contadini convertiti – e aspetta di sentire la voce imperiosa di Dio, che gli indichi la strada, finanche a immaginarla in voice-over. Ma nel frattempo innocenti muoiono dopo tremende torture (tra cui un contadino interpretato dal regista cult di Tetsuo Shinya Tsukamoto) e si consuma un testardo testa a testa tra posizioni diverse: da un parte Rodriguez, dall’altra l’inquisitore Inoue (un immenso Issei Ogata), che discutono i motivi della repressione, dell’inutilità dell’azione caparbia dei missionari, delle differenze culturali, infine di verità filosofiche. E si arriva sempre allo stallo, mentre intorno il Silenzio è rotto solo dalle voci sanguinanti dei seviziati a morte.
Senza dubbio i dilemmi che il film pone esplodono visivamente nel finale, quando l’apostata (non più padre) Ferreira si materializza davanti a Rodriguez, delineando l’unica via possibile che possa conciliare il buddismo (soprattutto quello strumentale dello Shogunato) e cristianesimo, ovvero la via della vita senza riserve: uscire dall’IO, togliere valore a simboli e icone, calpestare la piastrella bronzea con il Cristo scolpito (pratica del fumie). Abiurare, farsi Giuda dopo aver confessato e perdonato tre volte Kichijiro, la figura forse più tormentata del film, l’unico che scopertamente si mostri, tradendo, in tutta la sua fragile umanità: abietta forse, ma sincera nell’ammissione di una sconfitta perenne di fronte ai grandi interrogativi dell’esistenza e in assenza di una voce profonda che rassicuri sulla salvezza dopo le sofferenze.
Alessandro Leone
Silence
Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: Jay Coks. Fotografia: Rodrigo Prieto. Montaggio: Thelma Schoonmaker. Costumi e scenografie: Dante Ferretti. Interpreti: Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Ciarán Hinds, Issey Ogata, Tadanobu Asano, Shinya Tsukamoto, Ryô Kase. Origine: Usa, 2016. Durata: 161′.