La pelle dell’orso racconta di un paesaggio ruvido ed essenziale, quello del nord-est dolomitico. Un cinema di genere: un western che s’inerpica per i sentieri montani.
Pietro Sieff (Marco Paolini) è uno dei pochi minatori della valle. Vedovo, ex-galeotto, vive con il figlio Domenico (Leonardo Mason), con il quale non è mai riuscito ad entrare in sintonia. All’osteria del paese è sempre ripiegato nell’alcol, sbeffeggiato, emarginato. Lontano da tutti anche con la casa, viene attaccato dal Diàol, un vecchio e leggendario orso bruno, affamato e furbo. Pietro decide di partire per uccidere la bestia feroce, reagendo alla superstizione della comunità di valle. In un momento di lucidità, o follia, scommette con Crepaz. Vende – letteralmente – la pelle dell’orso prima di averlo ucciso: se riuscirà ad abbatterlo, Crepaz gli darà un premio in denaro; in caso contrario, lavorerà alle sue dipendenze gratuitamente per un anno, compromettendo il sostentamento della famiglia. Pietro parte con il fucile in spalla, solitario ma deciso, andando incontro alla morte sicura. Domenico si unirà volontariamente alla caccia, cercando un contatto sincero e definitivo col padre.
Il silenzio fra Pietro e Domenico è protagonista, assordante, in una valle ricca di suoni naturali, molto spesso minacciosi. Pietro e l’orso corrono su binari paralleli, sono due nature destinate ad estinguersi. Siamo alla fine degli anni ’50, la concretezza della dura vita di montagna verrà ben presto cancellata dal progresso. L’assenza di una madre per Domenico, morta in circostanze non ben chiarite, sottolinea il ruolo catalizzatore di Sara (Lucia Mascino): montanara tosta e rivoluzionaria, aiuta il ragazzino a fiutare le orme del padre per i boschi. Il concetto di ricerca della dignità, trasversale sui pochi personaggi, appare quindi come unico grande collante, e anche l’unica non scontata rivoluzione culturale che toglie la ruggine dalla generazione della guerra. La sceneggiatura, scarna, non permette agli uomini di esprimersi. L’impressione successiva è che la regia di Marco Segato non abbia cercato abbastanza i linguaggi delle azioni.
La storia si rivela prevedibile, lenta e ripetitiva nelle rappresentazioni. Scontata è la componente epifanica della natura. Gli ambienti sono quelli della Val di Zoldo, le immagini della Val Pramper, Fornesighe e la Veda. La fotografia è fredda e pungente, realista.
La pelle dell’orso è ispirato all’omonimo romanzo di Matteo Righetto.
Giulia Peruzzotti
La pelle dell’orso
Regia: Marco Segato. Sceneggiatura: Enzo Monteleone, Marco Paolini, Marco Segato. Fotografia: Daria D’antonio. Montaggio: Paolo Cottignola, Esmeralda Calabria. Interpreti: Marco Paolini, Leonardo Mason, Lucia Mascino, Paolo Pierobon, Maria Paiato, Mirko Artuso. Origine: Italia, 2016. Durata: 92′.