“Non sono un cliente, un fruitore o un utente. Non sono un lavativo, un parassita, un accattone o un ladro. Non sono un numero di assicurazione nazionale o un puntino su uno schermo. Ho pagato sempre, fino all’ultimo penny, e orgoglioso di farlo. Non ho mai leccato i piedi a nessuno, ma ho guardato il mio prossimo negli occhi e l’ho aiutato, quando potevo. Non accetto e non chiedo la carità. Il mio nome è Daniel Blake. Sono un uomo, non un cane. E in quanto tale, esigo i miei diritti, esigo mi trattiate con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino.
Niente di più, niente di meno”.
È sufficiente leggere e rileggere queste parole per emozionarsi, incazzarsi e provare a ragionare. Leggerle e rileggerle è come subire un pugno nello stomaco che ci fa aprire gli occhi sul mondo che ci circonda, un pugno forte che dovrebbe far capire a tutti che il diritto di vivere non può essere subordinato a nulla.
Newcastle. Daniel Blake è sulla soglia dei sessant’anni e, dopo aver lavorato per tutta la vita, ora per la prima volta ha bisogno, in seguito a un attacco cardiaco, dell’assistenza dello Stato. Infatti i medici che lo seguono certificano un deficit che gli impedisce di avere un’occupazione stabile. Fa quindi richiesta del riconoscimento dell’invalidità con il relativo sussidio ma questa viene respinta. Nel frattempo Daniel ha conosciuto una giovane donna, Daisy, madre di due figli che, senza lavoro, ha dovuto accettare l’offerta di un piccolo appartamento dovendo però lasciare Londra e trovandosi così in un ambiente e una città sconosciuti. Tra i due scatta una reciproca solidarietà che deve però fare i conti con delle scelte politiche che di sociale non hanno nulla.
Il cinema di Ken Loach ha sempre trattato temi simili, solo per citarne alcuni: Riff Raff, Piovono pietre, My name is Joe, In questo mondo libero, Ladyboard Ladyboard, sono tutti racconti incentrati sulla dignità della persona contro un sistema ostile e crudele. Con I, Daniel Blake prosegue imperterrito su questa strada. A Cannes il film ha vinto la Palma d’oro (la seconda per il regista inglese, dopo Il vento accarezza l’erba), suscitando gli entusiasmi di chi si è emozionato ed ha ritrovato ideali sopiti. Allo stesso tempo è un film che ha irritato i cinefili duri e puri che ci hanno visto un film retorico e vecchio. Personalmente credo sia un film molto emozionante, molto giusto, che però non raggiunge gli apici del cinema di Loach.
Durante la visione del film ero lì con Daniel e Daisy, volevo partecipare al loro senso di solidarietà. Volevo essere al tavolo di quella cena frugale che si preparano nella casa nuova di lei. Volevo essere con loro, anche e soprattutto, per combattere contro le ingiustizie di uno Stato non più degno di questo nome. Volevo urlare in quell’ufficio statale che sembra non essere più umano. Allo stesso tempo mentre le immagini scorrevano ero però combattuto: è un film che “annuncia” ogni svolta narrativa, le due scene più toccanti sono facilmente prevedibili, sono quasi scontate se si conosce un po’ il cinema di “Ken il rosso”. Quella del banco alimentare, straziante come poche, e quella del supermercato sono fin troppo telefonate e sicuramente sono troppo programmatiche. Mi sono allora chiesto perché Loach abbia deciso di rendere così “facili” questi snodi narrativi, voleva rendere così lo spettatore più partecipe al dolore dei protagonisti? Voleva che tutti noi empatizzassimo con le loro umiliazioni più profonde? Forse sì, ma questo rende il film ricattatorio? Assolutamente no.
I, Daniel Blake è sicuramente fin troppo esplicativo, c’è molto già visto, ma questo squalifica il film? No e poi no, il modo scelto da Loach ci fa amare i due protagonisti, permette di immedesimarci, ci fa capire che queste tragedie potrebbero succedere a noi o al nostro vicino di casa, ci dice soprattutto di non arrendersi alla logica del liberismo selvaggio. E quel finale secco, impietoso, terribile ce lo fa capire molto bene, è un finale che esce dalla testa difficilmente. Insomma, fa quello che dovrebbe fare ogni opera d’arte: ci fa aprire la mente e gli occhi.
Claudio Casazza
I, Daniel Blake ovvero il senso di un certo fare cinema in Stato di guerra
Vecchio, già visto, facile.
Quando esco dal cinema sono perplesso, come altri. Al momento mi concentro sul linguaggio, un linguaggio asciutto, semplice, quasi televisivo, nella volontaria astensione da qualunque vezzo o ambizione di esporre, e di divertire.
Qualcuno mi dice, per altri motivi: il cinema deve essere il cinema, deve regalarmi un altro mondo, concedermi una visione… E allora comincio a pensare: Ken Loach, il regista che con Ladybird, Ladybird ha aperto il mio sguardo, in una giornata di pioggia della mia adolescenza, un intero cosmo cinematografico che allora non immaginavo nemmeno esistesse; proprio lui mi ha deluso, si è ripetuto, è invecchiato.
Comincio a riflettere. Gli ultimi film erano diversi. Il regista inglese sceglie di tornare a una formula già usata, abbandona le armi del plot di scrittura, di fotografia, anche le scelte sui movimenti di macchina sono sottotono. Addirittura il suono non è mai importante o frutto di una rielaborazione artistica. Comincio a riflettere. E mi rendo conto che per tutta la durata del film sono stato lì, con Daniel e Deasy. Mi sono avvicinato senza mediazioni alla loro umanità, alle loro tribolazioni. Mi sono anche commosso, ma dentro una lucida visione delle cose, una chiarezza che solo una trama così semplice poteva consentire, volutamente didattica, come in uno spettacolo brechtiano. C’è una radicalità ritrovata nella scelta di togliere tutto e lasciare davanti alla macchina da presa soltanto queste umanità nude e vere, con tutta la loro dignità di ultimi (secondo parametri economicistici) che nelle difficoltà si sostengono a vicenda e, mentre chiedono giustizia, non si piegano, non si arrendono, non si lasciano derubare nemmeno per un istante della loro identità.
A questo sguardo ci ha abituato Ken Loach, uno sguardo che qui viene ribadito. Ma c’è qualcosa di più. C’è una precisa volontà di continuare a fare del proprio cinema uno strumento politico di protesta e di indagine, focalizzata contro uno Stato preciso, quello inglese, che sotto una spinta efficientista di stampo thatcheriano, vuole obbligare alla gara del risultato chi è vecchio e malato, dimenticandosi il senso stesso della sua funzione; e un’indagine sull’essere, che riesce a ricostruire in un’opera di finzione i moti dell’animo che si scatenano non dal dissidio sociale, dalla lotta fra pari nelle ordinarie dinamiche di vita, ma dalla cascata distruttiva di uno stato burocratico e inumano, uno stato che dichiara guerra ai suoi stessi cittadini.
Nelle interviste susseguenti alla Palma D’Oro il regista ribadisce più volte le sue intenzioni. Il suo obiettivo è il pubblico, quello inglese, che è stato abituato dai media – sollecitati e avvallati dal potere pubblico e dai poteri forti – a ritenere colpevole e quasi criminale chi si avvale di un sussidio, in una logica persecutoria di chi non ce la fa. E se fin qui l’attacco è così preciso e circostanziato che potrebbe riguardare soltanto il mondo anglosassone, il film non si ferma lì, si allarga, assume una sua universalità, sebbene collocata temporalmente, mette al centro il conflitto fra valori umani e valori dello Stato e ci chiede, puntandoci il dito: tu, proprio tu, stai dalla parte di uno Stato che lascia arrivare alla fame chi non ce la fa? Te la prendi questa responsabilità?
Ci sono echi chiari del cinema neorealista, di film come Ladri di biciclette o ancor più di Umberto D, echi dichiarati, ma anche questo è in sintonia con la scelta di un cinema povero, che si concentra sul cosa, perché nel nesso fra stile e struttura sembra voler creare un ponte fra la realtà del dopoguerra, gli anni ottanta della rivoluzione neoliberista, e gli esiti di quel percorso, oggi. E allora un piccolo film, semplice, dritto, ricattatorio nell’assenza di scuse per la controparte, torna a essere la rivendicazione di una poetica e di una funzione irrinunciabile del cinema: mettere le coscienze davanti al fatto. Si può non essere d’accordo, e forse non funziona, ma è la rivendicazione di un cinema ideologico, che sta soltanto da una parte, senza compromessi, un cinema operaio che anche nei modi si astiene dall’essere ipocritamente e furbescamente politically correct.
Forse ne abbiamo bisogno, in un quadro generale di un cinema di massa e di consumo sempre più rivolto all’entertainment. Forse proprio qui viene fuori un dubbio: potrà raggiungere un film come questo il grande pubblico? O rimarrà un discorso rivolto a una popolazione limitata e colta? La giuria di Cannes potrebbe rispondere: noi abbiamo fatto il possibile, premiandolo. E Ken Loach forse aggiungerebbe: anch’io ho fatto il possibile, semplificando.
Massimo Donati
I, Daniel Blake
Regia: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul Laverty. Fotografia: Robbie Ryan. Interpreti: Hayley Squires, Micky McGregor, Natalie Ann Jamieson, Dave Johnson, Colin Coombs. Origine: GB/Francia, 2016. Durata: 100′.