The landscape contract è il titolo di una conferenza di Peter Greenaway tenutasi il 18 luglio scorso al Teatro Sociale di Como in apertura del Lake Como film festival, dedicato al paesaggio. Il titolo richiama uno dei film del regista inglese, The Draughtsman’s Contract (1982), tradotto in italiano come I misteri del giardino di Compton House (traduzione italiana del titolo che secondo il regista forse è stato ispirato dalla moda per i romanzi di Agata Christie in voga negli anni di uscita della pellicola) film che è stato proiettato poi in serata nel contesto dell’arena estiva.
Greenaway ha ripercorso le tappe del suo rapporto con il paesaggio, attraverso citazioni, immagini, spezzoni di film, e racconti fino alle sue più recenti opere, anche quelle ancora in lavorazione. Egli ha raccontato di aver sempre desiderato essere un pittore, ma quando iniziò a dipingere rimase un po’ deluso per il fatto che i dipinti non avessero una colonna sonora. Le colonne sonore sono sempre state un elemento forte del cinema di Greenaway, spesso affidate a Michael Nyman.
Secondo Vitruvio (libro I De architettura) – continua il regista – la migliore educazione possibile è quella dell’architetto, in quanto deve maneggiare diversi aspetti, deve sapere un po’ di tutto, deve conoscere sia i materiali che le tecniche costruttive, ma deve anche saper maneggiare i conti. Secondo Greenaway la migliore educazione possibile oggi invece è quella del filmmaker, e si chiede: come possiamo combinare 8000 anni di storia della pittura con i soli 120 dell’arte cinematografica? Il cinema secondo Greenaway non ha ancora un linguaggio proprio autonomo: è infatti basato principalmente sui testi scritti, non sulle immagini. Se dovessimo andare da un produttore per cercare i soldi per fare un film, portando con noi quattro dipinti e un album di disegni nessuno capirebbe, né darebbe mai i fondi necessari a girare: il testo scritto la fa da padrone nel cinema, film di enorme successo come Henry Potter e Lord of Rings sono infatti basati su libri. Questo perché è comune nel mondo occidentale che l’educazione visiva si interrompa verso i 10-11 anni di età, poi il testo prende il sopravvento, considerato più utilitario, vengono quindi accantonate attività legate all’arte e all’espressione non verbale, considerate inutili nella società moderna. Per i rimanenti 70 anni circa della propria vita la maggior parte delle persone vive senza alcuna istruzione visiva. Greenaway vede tutto questo come una grande occasione persa e si propone di lavorare all’alfabetizzazione visuale (visual literacy), dare senso e significato, interpretare, o saper leggere le immagini, attraverso le sue opere che non sempre possono essere etichettate come semplici film. Il regista gallese è infatti ben lontano dall’industria dell’intrattenimento e ha prodotto film lungometraggi, cortometraggi, documentari, ma anche installazioni, opere di pittura e proiezioni su opere d’arte famose. Secondo Greenaway il cinema, e noi in quanto spettatori, meritiamo di più da questo mezzo di espressione, e cita Eco quando dice che il mondo è stato rovinato da coloro che gestiscono i testi, cioè coloro che governano il mondo costruendo la civiltà occidentale che è appunto basata sul testo scritto. La rivoluzione digitale, ovvero il momento attuale, è secondo Greenaway propizio per chiedere a chi gestisce i testi di farsi da parte e lasciare spazio a chi produce e lavora con le immagini.
Greenaway vede il cinema, un’arte giovane, non come un testo illustrato, ma come una forma di arte che deve ancora trovare il suo linguaggio, tema a cui ha dedicato il workshop tenutosi il giorno successivo a Villa Sucota presso la fondazione Ratti, davanti agli studenti del gruppo IED-Accademia Galli.
Al Teatro Sociale sullo schermo dietro di lui era proiettata l’immagine di una superficie d’acqua, digitalizzata con la suddivisione in quadrati, numeri e lettere. Per la precisione la mappatura di una superficie di acqua: mappe, acqua, lettere e numeri, tutti elementi stilistici ricorrenti nell’opera di Greenaway. Mappare è un metodo per comprendere il paesaggio: come in Mondrian con i suoi paesaggi mentali fortemente ordinati. Introduce poi un numero ricorrente nei suoi film: il 92, numero atomico dell’uranio (la tavola elementare degli elementi è forse un modo per mappare gli elementi naturali). A proposito del 92, c’è un’opera che Greenaway in questa occasione non ha citato ma che mi piace ricordare, l’installazione Wash and Travel, presentata nel 2000 nella mostra Stanze e Segreti alla Rotonda della Besana a Milano. Un’installazione dove 10 vasche da bagno in smalto bianco erano riempite con vari materiali, acqua, acqua calda, ghiaccio, e attorno, disposte su scaffali, 92 valigie anch’esse piene di vari materiali. 92 è un numero che rappresenta un elemento in grado di distruggere il mondo. Il numero di esplosioni atomiche certificate dal 1945 al 1996 è di 2201 è la frase che compare sullo schermo nel video Atomic Bomb on the Planet Heart in cui la reiterazione delle esplosioni nucleari su schermi multipli, serve a infondere nello spettatore la gravità e pericolosità del fenomeno (video mostrato solo nel workshop del giorno successivo).
Greenaway ha poi mostrato alcuni dei suoi dipinti, chiamati Field at Night, una serie di opere basate sul paesaggio olandese, rubato all’acqua (il regista attualmente vive ad Amsterdam), paesaggi fatti di campiture geometriche orizzontali di colore accostate a costituire il paesaggio e il cielo all’orizzonte; paesaggi un po’ come se fossero visti dall’aereo. Infine ha concesso al pubblico alcuni giornalieri del film attualmente in lavorazione: Walking to paris. Dopo Eisenstein in Mexico ancora una volta sarà un film in stretto contatto con le arti visive, un lavoro sullo scultore Constantin Brancusi. In particolare il film tratterà del viaggio, durato un anno e mezzo, che porterà Brancusi, a piedi, attraverso l’Europa e il suo paesaggio, da Budapest a Parigi. Un artista a inizio ‘900 doveva per forza abitare a Parigi, dove vivevano tutti i grandi artisti del momento. Durante questo viaggio egli raccoglierà legni dai boschi e sassi dai fiumi per produrre 300 opere disseminate nelle zone boschivi dei paesi che stava attraversando, arrivando a scolpire con il ghiaccio e con la neve e diventando così il precursore della land art. Un film dedicato al paesaggio europeo prima della meccanizzazione agricola; un tributo a un paesaggio che sta per scomparire.
Roberto Bestetti