“I film che vedrete susciteranno un po’ di nostalgia perché quel mondo non c’è più”. Con queste parole Vittorio De Seta incontra il pubblico del 23° Torino Film Festival, in occasione della proiezione di 10 suoi documentari girati negli anni ‘50 e dell’attribuzione del premio Cipputi alla sua opera.
E la nostalgia, mista però al godimento nella fruizione di immagini che scorrono sullo schermo in modo piano e avvolgente, è la cifra del bel pomeriggio che ci ha regalato il Festival.
De Seta, oltre che autore di fiction illustri come Banditi a Orgosolo (1961), è un maestro di quella stagione abbastanza breve di cinema etnografico italiano che ha avuto in Diego Carpitella il suo più autorevole teorico.
I documentari presentati, ciascuno di 10 minuti, come richiedeva la legge di allora per accostarli a film a soggetto per la proiezione in sala, hanno per tema l’umanità, il paesaggio, il lavoro per mare e per terra, le feste religiose di una fetta di Italia, la Sicilia, la Calabria, la Sardegna. Omeglio di alcuni spicchi di quel Sud povero e culturalmente “intenso” che tanta parte ha nel determinare le radici e l’identità del nostro paese. Sono tutti a colori, fatto non usuale per quegli anni, hanno una didascalia iniziale che spiega di che si vuole trattare e sono tutti, tranne uno, I dimenticati del 1959, senza commento verbale. Accompagnano l’immagine solo i suoni che provengono dalla realtà filmata e alcuni brani musicali. Anche questa assenza delle voci ingombranti a cui ormai siamo avvezzi dai reportage televisivi, anche dai migliori, rende piacevolissimo lasciarsi andare alle piccole storie di fatica, sofferenza, ma anche di poesia che i documentari raccontano. E saremmo rimasti lì ben oltre le due ore previste di proiezione e di chiacchiera con De Seta. E’ il regista ad accennare alla poesia che è rinchiusa nella cultura popolare espressa in quel mondo quasi scomparso. Ma la poesia no, dice de Seta, non è scomparsa, bisogna andarla a cercare altrove. Forse nel suo prossimo film, che sta per essere completato, Lettere dal Sahara, la ritroveremo nell’universo dell’immigrazione, nell’incontro con altre culture. Forse
Lu tempu de li pisci spata, Contadini del mare mostrano lo sforzo, l’ansia e l’esultanza degli uomini che nelle acque di Sicilia pescano i pesci spada e i tonni. Ma le acque si tingono di sangue, i tonni ancora vivi, issati sulle barche, feriti a morte guizzano, sbattono le code, soffrono e poi muoiono. Documento di cultura materiale e insieme rappresentazione drammatica dell’eterno conflitto tra morte e vita. Pescherecci ci racconta la storia di migliaia di uomini che battono il mare nella zona tre Sicilia e Africa alla ricerca del pesce. E quando infuria una tempesta, ci dice la didascalia, cercano riparo presso l’isola di Lampedusa, l’isola che oggi è citata sui quotidiani con regolare frequenza per lo sbarco tragico di poveri individui che fuggono dai loro paesi o per il ritrovamento dei loro corpi che galleggiano sull’acqua. Negli anni’50 era costa amica che proteggeva i pescatori dalla furia del mare. Sono passati 50 anni da quel film : in che direzione sta andando l’umanità, viene da chiedersi, senza retorica…
Frammenti etnografici raccolti con rigore scientifico contengono le immagini di Pasqua in Sicilia, girato in alcuni paesi del centro della Sicilia, dove il culto religioso e il senso della tradizione permeano la vita delle piccole comunità. Osserviamo costumi e statue sacre di rara bellezza.
Lo sguardo in successivi documentari Un giorno in Barbagia e Pastori di Orgosolo si sposta in Sardegna. L’habitat è quello aspro dei pastori con le loro greggi al pascolo, lontani da casa, dove le donne col loro lavoro consentono la prosecuzione della vita con l’accudimento dei figli, il taglio della legna, la preparazione del pane,”il pane dei pastori “. Durezza della natura e calore del focolare si intrecciano nel porgerci immagini di una cultura famigliare che sembra solida, pur nella fatica quotidiana della sopravvivenza.
La storia di I dimenticati invece è quella di un paesino di montagna della Calabria, Alessandria del Carretto, dimenticato perché la costruzione della strada è stata abbandonata e quindi la gente si chiude in letargo nel periodo invernale,sola, fuori dalle comunicazioni e riprende a vivere e a gioire col ritorno annuale della primavera.
C’è sempre in De Seta la denuncia dell’ingiustizia sociale, dei torti, dei danni che subiscono le classi subalterne. Ma è come se dentro di sé questa umanità trovasse la forza del riscatto e la capacità di vivere i momenti di poesia che la sorte riserva a tutti, anche a loro. Loro sicuramente li sanno cogliere, ci suggerisce De Seta, noi abitanti delle “metropoli” chissà.
Laura Operti
(Pubblicato sul n°27 della versione cartacea, aprile 2009)