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Addio a George Kennedy

kennedy2Chi era George Kennedy? Già, bella domanda. Per noi ragazzi nati forse sulla parabola discendente della Generazione X, un passo prima del crollo del Muro, quest’attore rimane impresso per aver vestito i panni del detective Ed Hocken nella serie Una pallottola spuntata, parte prima ed epigoni, del trio Zucker-Abrahams-Zucker: un prodotto fine anni ottanta – primi novanta, capace di divertire con quella comicità barbina che oggi, a ben guardare, ascriviamo a tutto ciò che si muove al largo del cinepanettone. È un nome sfuggente, quello di George Kennedy, guizzante come una trota che non si riesce ad afferrare, eppure che c’è, e resta lì a pungolarci con il suo suono così estraneo eppure tanto famigliare. Poi andiamo a controllare, a scartabellare gli archivi, come si diceva un tempo prima del computer, ed ecco che spunta l’Oscar. Ma attenzione, non un Oscar qualsiasi, ma quello al Miglior attore non protagonista. Il candidato protagonista era infatti Paul Newman in Nick mano fredda (1967) di Stuart Rosenberg, ma Kennedy gli soffiò l’ambita statuetta per il ruolo del suo compagno di cella: grande, biondo e muscoloso. Ve lo ricordate? Il film forse non era questo gran capolavoro, ma ciò che balza all’occhio della memoria è quel momento sudaticcio in cui i forzati, mezzi biotti, scavano un fosso sotto la stecca del sole, e a un certo punto appare una biondina in minigonna che comincia ad ancheggiare mentre lava la macchina. Era il massimo della provocazione, non per ciò che faceva vedere, ma per quel che sottintendeva, per l’idea di mascolinità (e femminilità) repressa, che non poteva esplodere, ma che se fosse esplosa ne avrebbe combinate peggio di Bertoldo.
Certo Kennedy era più tagliato per fare il poliziotto, tanto da aver dato alle stampe anche due romanzi di genere. Andate a guardare quell’altro filmkennedy1 con Tony Curtis e Henry Fonda: Lo strangolatore di Boston (1968) di Richard Fleischer. Lui era il detective Phil DiNatale. E in Tick… tick… tick… esplode la violenza (1970) di Raph Nelson? Lo sceriffo John Little. In Quella sporca dozzina (1967) di Robert Aldrich indossava la divisa del maggiore Max Ambruster. In Una calibro 20 per lo specialista (1974), esordio alla regia di Michael Cimino, quella del delinquente chiamato Rosso. Ne Le pistole dei magnifici sette (1969) di Paul Wendkos è invece un pistolero. Poi Airport, Assassinio sul Nilo, Ultimo rifugio: Antartide, La stella di latta… Per non parlare della televisione: era proprio lui Bumper Morgan, il poliziotto di quartiere dell’omonima serie americana trasmessa tra il 1975 e il 1976. L’abbiamo ritrovato persino in Creepshow 2, nel primo episodio, quello dell’indiano di legno: finiva ammazzato per mano di una masnada di ragazzotti fuori di zucca, e presto vendicato dall’orribile totem animatosi nottetempo. Kennedy era uno sguardo, un corpo, una faccia, un fisico che ancora oggi si ricorda più che il nome: l’abbiamo visto cambiare, trasformarsi, ingrassare, gonfiarsi, invecchiare, adattarsi. In una sola espressione: essere un essere umano all’interno di un immaginario, quello del cinema, che standardizza e omologa. Non poco, diremmo.

Marco Marchetti

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