Fifties
All’ultimo festival di Cannes il film ha fatto parlare molto di sé ma alla fine non ha raccolto nessun premio, in tutto il mondo dove è già uscito sta avendo grande successo di pubblico e critica, ha ottenuto cinque nomination ai Golden Globes per il miglior film nella categoria drama, per la miglior regia, per la miglior colonna sonora originale oltre due nomination per le due attrici protagoniste. E probabilmente anche agli Oscar farà incetta di premi.
New York degli anni ’50, la società americana va avanti verso il benessere, seguendo un cammino rigido stabilito dalle regole: due donne appartenenti ad ambienti molto diversi si incontrano casualmente e vengono a poco a poco travolte dal sentimento. Sono Therese Belivet (Rooney Mara), una ventenne che lavora come impiegata in un grande magazzino a Manhattan sognando una vita più gratificante, e Carol (Cate Blanchett), una donna attraente intrappolata in un matrimonio di convenienza e senza amore. Tra loro scatta immediatamente un’intesa che le porterà a sfidare i tabù imposti dalla morale dell’epoca.
Le bravissime attrici e un’ambientazione anni ’50 ci restituiscono meravigliosamente il clima e l’anima del periodo, Cate Blanchett è ormai un’icona dei cinefili, ma la vera sorpresa è Rooney Mara che le tiene testa in tutto il film senza sfigurare. Todd Haynes prosegue così il suo percorso dentro la Storia: sugli anni ’50 aveva girato lo splendido Lontano da Paradiso, che in tanti hanno paragonato a Carol, forse perché anche in quel film si raccontava di un amore contrastato. E’ però sia limitativo un parallelo con quel film, poiché anche i due “biopic musicali”, Io non sono qui e Velvet Goldmine, sono degli incredibili “film storici” che riescono a raccontare in modo affascinante l’America dylianiana e la Londra del glam rock. Pertanto è credibile che Haynes col suo cinema voglia inserirsi proprio dentro la Storia, raccontando grandi personaggi che hanno fatto a brandelli un’epoca (le sue icone rock) o che hanno lavorato in sottotraccia molto più sul personale (le sue eroine dei film fiftivies).
Carol è un adattamento di The Price of Salt, celebre romanzo di Patricia Highsmith che uscì addirittura firmato da uno pseudonimo e che per anni rimase una sorta di lettura clandestina per il mondo lesbico. Il film è molto fedele al romanzo, anche nel finale, è però interessante scoprire che il personaggio di Rooney Mara diventa una fotografa nel film mentre era un’apprendista scenografa nel romanzo: lei guarda il mondo fotografando Carol, sono quindi le immagini che iniziano a sciogliere il suo sentimento, forse è questa la chiave di interpretazione del film. La Blanchett riesce ad essere costantemente sia oggetto che soggetto di sguardo, come ha dichiarato lo stesso Haynes. Infatti il film è pieno di specchi, vetrine, schermi, filtri che ritagliano lo sguardo di due donne che costantemente si cercano. Solo così si può spiegare quella parte centrale del viaggio che, a prima vista, sembra solo un modo di raccontare il passaggio dall’attrazione alla passione, ma che invece è fondamentale per comprendere tutto il lavoro di Haynes, c’è un un punto di vista che cambia continuamente, quasi in ogni inquadratura, un punto di vista che segue l’accrescere del desiderio.
Claudio Casazza
Il conformismo laccato della tematica sociale
Dopo i successi, di pubblico e di critica, di pellicole del calibro di Lontano dal paradiso e della miniserie televisiva Mildred Pierce, Todd Haynes si cimenta nuovamente in quella che sembra essere divenuta la sua specialità: il mélo con ambientazione storica, rievocante contesti di profondo mutamento sociale; stagioni contraddittorie che non smettono mai di sedurre, e che, in talune circostanze, hanno preparato il terreno a fenomeni culturali fondamentali come il rock e la beat generation, cui il regista, peraltro, ha dedicato due dei suoi lungometraggi più riusciti, Io non sono qui e Velvet Goldmine.
Haynes rigioca dunque una carta sicura e, con l’indubbia bravura che lo contraddistingue, confeziona un prodotto pressoché perfetto, in cui la messa in scena si sposa impeccabilmente con il talento recitativo degli attori. Il manierismo di Haynes non può fare a meno di impressionare, con la sua pellicola in Super16, gli eleganti piani sequenza di orsonwellesiana memoria, i conflitti emotivi dei personaggi, che trovano esaltazione nell’assodata dialettica visiva che contrappone l’agente atmosferico tormentato degli esterni – le foglie, la pioggia, la neve – alla rassicurante eleganza degli interni sfarzosi, il tutto messo al servizio della tematica sociale, come si confaceva alla migliore cinematografia americana del secondo dopoguerra. Haynes, però, non si limita a raccontare gli anni ’50, realizza su di essi un vero e proprio tributo, esprimendo, nemmeno troppo tra le righe, la propria ammirazione per quei capolavori artistici del passato il cui stile e linguaggio seguita a influenzare la cinematografia di tutto il mondo. Sono innumerevoli i richiami al Cinema di quegli anni, dallo scorrere delle immagini di Viale del Tramonto sullo schermo di un televisore in bianco e nero, alle atmosfere morbose di Foglie al vento e l’eleganza noir de L’infernale Quinlan. Come accade spesso, però, il gusto per la citazione dettato dal troppo amore tende a diventare invasivo, appiccicandosi agli attori come dei toupets e trasformandoli in imitazioni di icone d’altri tempi. Un conto, infatti, è realizzare un film ambientato negli anni ‘50, un conto è realizzare un film degli anni ‘50. Immagini intenzionalmente sottratte ai quadri di Hopper finiscono così per assomigliare a quelle di Jack Vettriano, ispirando se non una sensazione di posticcio, quantomeno di esibizione narcisistica e autoreferenziale. In questo sfoggio di fotogrammi laccati, di location perfettamente ricostruite, di costumi sfarzosi, di equilibrati movimenti di camera, si ha quasi l’impressione di ravvisare una strategia seduttiva nascosta, finalizzata all’applauso e al riconoscimento generali. Anche l’argomento dell’omosessualità appare ruffiano, scelto per dare contenuto, indurre un effetto, così pure la tematica sul difficoltoso rapporto tra le diverse classi sociali. Su quest’ultimo aspetto Haynes dà quasi l’impressione di scadere nel romanzo risorgimentale italiano, in cui i personaggi delle classi subalterne acquisiscono lentamente lo status borghese, grazie alle loro capacità di conformarsi ai valori comuni. Similmente a Pinocchio, Therese perde gradualmente la propria legnosità di commessa da grande magazzino per trasformarsi in una Audrey Hepburn professionalmente realizzata e stimata.
L’ultima fatica di Haynes, insomma, non si discosta molto dal già citato Lontano dal paradiso, sia per le atmosfere ricreate sia per i contenuti, abbagliandoci con la solita scrupolosità delle ricostruzioni e del talento degli attori, senza però aggiungere nulla di diverso, nemmeno se ci si sforza di considerare la diversità dei comportamenti delle protagoniste dei due film. Se è vero, infatti che, contrariamente al personaggio interpretato Julianne Moore, Carol sfida a viso aperto le convenzioni sociali, scegliendo di non nascondersi dagli sguardi della gente, né di farsi impressionare dal moralismo che condiziona le stesse istituzioni, è altrettanto vero che tutto ciò le è consentito soprattutto in virtù della propria posizione sociale e del benessere economico di cui dispone, tutte cose che a Cathy di Lontano dal paradiso mancano.
La rivoluzione di Carol, insomma – come tutte le rivoluzioni, verrebbe da dire – è una rivoluzione dall’alto, una rivoluzione in tutto e per tutto borghese, che non fa che esaltare quello stesso ideale socio-economico di stampo americano che Haynes sembra voler mettere in discussione.
Carol è indubbiamente un film che seduce, che solletica vista e udito, ma che di fatto, nonostante le tematiche sottese, resta un prodotto convenzionale, di puro intrattenimento. Non ci si stracci però le vesti: il Cinema è anche questo.
Manuel Farina
Carol
Regia: Todd Haynes. Sceneggiatura: Phyllis Nagy. Fotografia: Edward Lachman. Musiche: Carter Burwell. Interpreti: Cate Blanchett, Rooney Mara, Sarah Paulson, Cory Michael Smith. Origine: Usa/GB, 2015. Durata: 118′.