Scrivere di Pasolini, come di qualsiasi altra pellicola di Abel Ferrara, l’italo-americano meno conosciuto tra i grandi registi italo-americani, è cosa complessa. Alla fine della visione, la molteplicità dei pensieri maturati si perde tra mille garbugli, la fugacità di un’intuizione evapora lungo un ardimentoso filo d’Arianna che non imbrocca mai l’uscita giusta. D’altronde Ferrara è un regista che segue il flusso delle immagini più che la geometria dei pensieri, mescola ricordi come un pittore i colori, e non rispetta la forma cinematografica nel senso più accademico del termine. C’era da aspettarselo, visto e considerato che nessuno di noi sa, né saprà mai (checché ne dicano gli accanimenti terapeutici degli intellettuali nostrani, che tra le varie portarono alla riesumazione della povera salma) cosa successe realmente quella notte fatidica sul lido di Ostia. Un mistero insoluto, uno dei tanti di questo paese, che resta forse collegato al furto delle pizze di Salò e forse alle sue scene censurate e mai recuperate, qualcuno azzarda addirittura foschi scenari fantapolitici. Il Pasolini di Ferrara è allora un’ipotesi di lavoro, che riempie le lacune con la supposizione di un omicidio apolitico, ma che alla fine si sposta sulla ricostruzione di cose più o meno risapute (le ultime ore del Poeta, qui un assai somigliante Willem Dafoe), e sulla riproposizione di cose che invece non avvennero. Due in particolare scandiscono l’ultimo film del regista di New York: la messa in scena cinematografica di Petrolio, romanzo postumo, incompiuto, che in qualche modo finisce per diventare spuria autobiografia del suo autore; e la realizzazione di Porno-Teo-Kolossal, progetto da anni nell’aria ma mai realizzato prima per la morte di Totò, e poi per quella dello stesso Pasolini. La pellicola di Ferrara, per quanto non rinunci ai toni crepuscolari dell’elegia, sottolinea ed esalta questi percorsi di vita, al contempo letterari e cinematografici, spingendo sull’eccesso, sul morboso, sulla rappresentazione della sessualità che a partire dai primi anni settanta divenne una specie di costante nel mondo artistico dello scrittore. La macchina da presa del suo demiurgo è delicata proprio come in tutti gli ultimi suoi lavori, da 4:44 a Welcome to New York, galleggia tra corpi e pensieri, si nasconde negli anfratti, nelle fessure, e finisce per annullare la distanza tra gli almeno tre piani temporali di cui è composto il film: il mondo reale di Pasolini, cadenzato dagli incontri con amici e giornalisti (tra cui Laura Betti e Furio Colombo, interpretati rispettivamente da Maria de Medeiros e Francesco Siciliano) e quello in costruzione dei suoi progetti. È un gioco semantico raffinato, il Pasolini di Ferrara, che proprio perché rinuncia alla pretesa di sensazionalistiche rivelazioni, si fa riflessione e compianto. Senza nulla aggiungere, senza forzare il risaputo se non nell’ambiguità di un finale storicamente aperto.
Pasolini è un viaggio, non più alla ricerca della verità, ma di una possibilità. Ed è proprio un altro metaforico viaggio a ritornare prepotentemente nel corso della pellicola: quello di Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli (dove il primo è interpretato dal vero Davoli, il secondo da Riccardo Scamarcio) che tra mille disavventure tentano di raggiungere una messianica cometa.
Marco Marchetti
Pasolini
Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Maurizio, Braucci, Abel Ferrara. Fotografia: Stefano Falivene. Interpreti: Willem Dafoe, Maria de Medeiros, Francesco Siciliano, Riccardo Scamarcio, Ninetto Davoli, Valerio Mastandrea, Giorgia Colagrande. Origine: Belgio/Francia/Italia, 2014. Durata: 100′.