L’animazione vive un momento eccezionale. Non che abbia mai subito cali di pubblico significativi. Certamente l’avvento di Pixar e Dreamworks ha ampliato il pubblico, allargando la fascia anagrafica. Da un lato l’animazione statunitense e dall’altro quella nipponica hanno via via applicato al concetto di intrattenimento popolare una vivacità narrativa e una sperimentazione tecnica, che comunque non prescinde dalla tradizione visiva e dai valori fondativi dei rispettivi contesti culturali. Il risultato è la persistenza di schemi narrativi e, spesso, un’animazione preoccupata di non tradire le aspettative dei giovani spettatori. Sarà per questo che prodotti come O Menino e o Mundo – Il bambino che scoprì il mondo affascinano, anzi ammaliano, nonostante tecniche “povere”, come la colorazione a pastelli, gli olii, il collage, l’essenzialità del tratto, la libertà di trasgredire con sequenze che accecano con le prevalenze di bianco. E per fortuna che con quasi due anni di ritardo questo gioiello esce in Italia, dopo aver fatto incetta di premi in tutto il mondo.
Essere indipendenti e fuori dagli apparati industriali è anche questo, al pari del fumetto d’autore. Alê Abreu sceglie di costruire con perizia la vicenda tragica, avventurosa, surreale, del bambino di campagna in cerca del papà, contadino costretto a migrare verso la metropoli con la prospettiva di un lavoro remunerativo. Il regista disegna il viaggio del bambino mescolando ciò che il piccolo protagonista vede (paesaggi nuovi popolati da sconosciuti), ciò che ricorda (il padre, soffice desiderio senza materia), ciò che percepisce (trascrizione magica della realtà).
Sfidando il bisogno dei bambini in sala di identificare i margini del racconto plausibile, anche di fronte al fantastico, Abreu compone una sinfonia visiva che evoca piuttosto che descrivere, che sussurra anziché scandire, che anzi rinuncia al linguaggio parlato, se si eccettuano poche battute incomprensibili in una lingua che non è nessuna lingua e perciò diventa universale. Allora alle immagini si affiancano i suoni, i rumori, un tema musicale, che nelle sue varianti riconduce sempre al papà e all’assenza dell’amore genitoriale.
La sceneggiatura è però così solida che, mentre i mandala colorati e le trasformazioni degli ambienti sembrano suggerire una Fantasia brasiliana, il percorso del bambino alla ricerca del padre, diventa la scoperta di un mondo sconosciuto e in veloce, terribile, trasformazione: il Brasile dei primi anni Settanta, che esultava per il Mondiale di calcio vinto in Messico, produceva una ricchezza effimera. L’abbandono delle campagne per il miraggio dei nuovi cotonifici in città (con tanto di fotografie bugiarde a promettere ricchezza immediata, motore che mise in moto gli italiani di inizio ‘900 verso le Americhe); l’avanzamento delle metropoli e i rapidi disboscamenti; l’avvento altrettanto rapido delle macchine industriali; l’impossibile ritorno in campagna dei lavoratori licenziati; la Dittatura e gli squadroni della morte.
O Menino e o Mundo è tutto questo, ma filtrato dallo sguardo aggraziato di un bambino che nemmeno nella favela di Rio, quando viene adottato da un poveraccio tutto cuore, smette di sorprendersi di fronte al mondo, tentando di comprendere senza perdere la speranza e il legame con la propria terra, con il proprio passato. Il seme che il bambino custodisce sotto la superficie della sua terra natale è una nota dell’anima che risuona nei momenti difficili, e che diventa improvvisamente la musica di un intero popolo in lotta con la sua storia recente.
Le trovate visive, sempre raffinate, fanno del racconto un’allegoria indimenticabile e un esempio di come matite, pennelli e ritagli possano ancora produrre spettacoli magici nel presente computerizzato dell’animazione.
Alessandro Leone
O Menino e o Mundo – Il bambino che scoprì il mondo
Regia, sceneggiatura e montaggio: Alê Abreu. Musica: Gustavo Kurlat, Ruben Feffer. Origine: Brasile, 2013. Durata: 80′.