Il film atteso di Denis Villeneuve – quasi superfluo scriverlo – è Blade Runner 2, ovvero l’operazione cinematografica più rischiosa degli ultimi anni: l’ombra di Riedly Scott, un cult che i fan conoscono a memoria anche nelle varianti Director’s Cut, re-immaginare un immaginario che nel 1982 aveva preconizzato il più possibile tra i futuri, quasi suggerendo la strada per concretizzarlo quel futuro bagnato da piogge corrosive e abitato da replicanti-umani e umani-inumani. In sala però ci arriva, adesso, Sicario, e ti vien da pensare che l’industria dei sogni americana è una macchina iperbolica, capace di concedere a un regista il lusso di lavorare su più fronti, incastrando produzioni su produzioni. Il regista fa il regista e poi la palla passa ad altri professionisti. Un ingranaggio perfetto che materializza spettacolo, ricavi e spesso tanta qualità.
Sicario non è un film transitorio, ma un’opera compiuta e strettamente legata alla filmografia del regista canadese che nel 2009 sorprese non poco con Polytechnique, racconto agghiacciante del massacro consumato vent’anni prima in un’università di Montréal per mano di uno studente universitario, e che mostrò quanto il Québec non fosse poi immune dalla follia statunitense descritta da Moore in Bowling for Columbine. Arrivarono poi altre due importanti regie: la Donna che canta (2010) e Prisoners (2013, la sua prima produzione USA), dove passava dal conflitto mediorientale alla provincia americana, attraverso il filo conduttore della ricerca ossessiva di verità e giustizia, temi ricombinati in Sicario.
Siamo a cavallo tra Arizona e Messico. L’agente FBI Kate Macy (Emily Blunt), dopo l’assalto ad un covo di narcotrafficanti che porta alla luce lo spettacolo straziante di decine di corpi murati dietro pareti di cartongesso, viene coinvolta dall’agente della CIA Matt Graver (Josh Brolin) in una Task Force formata da soldati e para-militari scelti con il compito di “tagliare la testa” ai mercanti di morte. Matt lavora con Alejandro (Benicio Del Toro), ex magistrato colombiano, a cui i signori della droga hanno ucciso brutalmente moglie e figlioletta. Kate capisce da subito che il commando non intende seguire procedure regolari, ma muoversi piuttosto infischiandosene di qualsiasi codice etico, superfluo nella guerra ai cartelli del narcotraffico.
Villeneuve, con la complicità di Taylor Sheridan, tra i più quotati sceneggiatori americani, costruisce un impianto narrativo su due fili tesissimi: da una parte il susseguirsi di azioni che portano gli uomini di Matt ad affondare i colpi nel cuore di Juarez, città di confine, inferno a cielo aperto dove giornalmente donne e uomini di fazioni diverse vengono mutilati e appesi ai lampioni; dall’altra la dialettica accesa tra Kate e la coppia Matt/Alejandro, che non intende negoziare su metodi e strategie. Sarebbe il solito scontro verbale tra chi pensa che il fine giustifichi i mezzi e il poliziotto puro e integerrimo che vede nella legge l’unica via possibile. Invece il cinismo di Matt e la maschera imperturbabile di Alejandro nascondono qualcosa in più di un semplice disincanto: la consapevolezza di dover giocare fuori dalle regole e di dover scegliere sempre per il minore dei mali è la conseguenza di vissuti dolorosi. Juarez è il riflesso di un contesto degenerato di dimensioni spaventose e che sforna belve feroci, le cui logiche non si possono comprendere leggendo trafiletti di nera sui quotidiani. Con Kate, la cui necessità all’interno del commando è giustificata dal ruolo di garante della correttezza delle procedure di ingaggio, Alejandro è subito chiaro: “niente avrà senso per le tue orecchie da americana, e dubiterai di tutto quello che faccio”. Il percorso dell’agente verso gli inferi la porta a ridefinire un certo idealismo al cospetto di una realtà che supera il più buio degli incubi.
Anche se la presenza di Kate mette alla prova la sospensione dell’incredulità e si capisce sia funzione narrativa indispensabile, lo sceneggiatore misura i dialoghi e non cade mai nel banale, il regista mette a punto perfetti meccanismi di suspense (basti la lunga sequenza iniziale e l’attraversamento del confine di cinque auto scortate con lo spauracchio dell’imboscata) e lavora con Roger Deakins a un impianto visivo di grande impatto, dove i colori del deserto tingono la luce del giorno, il sudiciume delle vie di Juarez esemplifica la corruzione dell’anima, l’oscurità della notte diventa l’oblio della ragione. Echi orrorifici risuonano nel film, come pure non si disdegna il ricorso a un immaginario da war-movie contemporaneo (le ultime pellicole della Bigelow per intenderci). La morte eccede e sgretola qualsiasi linea idealista e moralista, perché il punto è proprio questo, valicare il limite per garantire la sicurezza e il controllo almeno in una certa parte di mondo. Prevenire o curare ad ogni costo, perché a sventolare la bandiera della democrazia pulita c’è sempre tempo durante le parate di facciata. C’è chi è pagato per issare vessilli e chi è pagato per assicurare che il vessillo possa essere alzato.
Alessandro Leone
Regia: Denis Villeneuve. Sceneggiatura: Taylor Sheridan. Fotografia: Roger Deakins. Montaggio: Joe Walker. Musiche: Jòhann Jòhannsson. Interpreti: Benicio Del Toro, Emily Blunt, Josh Brolin, Jon Bernthal. Origine: Usa, 2015. Durata: 121′.