Strana edizione, questa sessantottesima: informe, discontinua, asimmetrica, piena di robe strane che non sapresti dove mettere, con contenitori che non sei mai sicuro di ciò che contengano. Certo, è il bello dei festival, ma anche il loro limite. Tra i più attesi c’era senza dubbio lo svizzero Heimatland: dieci registi elvetici (nessuno del Canton Ticino, però, sembra per disaccordi produttivi e stilistici) si confrontano con la fine del mondo. Anzi, della Svizzera. Una grossa nube temporalesca si forma sopra la santa patria di Guglielmo Tell, e minaccia di spazzare via tutto in una notte di tregenda. Qui seguiamo le vicende ordinarie di alcuni personaggi altrettanto ordinari, il tassista immigrato che a stento vede moglie e figlia perché lavora di notte, la poliziotta con la faccia da poliziotta e un brutto segreto da nascondere, la guardia del supermercato che non esita a prendere a calci in faccia un cliente quando questi si attarda all’uscita… ah sì, c’è anche una bellissima pawg nella parte di un’agente assicuratrice. Non sapete cos’è una pawg? È un acronimo che sta per Phat Ass White Girl. Si avvicina l’ira di Dio, la gente impazzisce, un predicatore punta il dito addosso alle banche svizzere, tutti fanno la morale a questo sistema marcio e corrotto, ma in verità quasi nessuno è disposto a scendere a patti con le proprie colpe. Un esaltato di estrema destra va in birreria e spiega a una masnada di tifosi ultrà che appena comincerà a piovere, orde di immigrati inferociti usciranno dalle tane per rubare tutta la ricchezza degli svizzeri. Concittadini, armatevi e difendete la vostra terra!
Il film è costato parecchio, ha una produzione alle spalle, è ironico senza essere caciarone e insomma farà senz’altro la sua bella figura nelle kermesse di mezzo mondo, soprattutto quelle di “settore”. Purtroppo dieci registi sono tanti e o li impieghi in un film a episodi o non li impieghi affatto. Heimatland è invece corale, accorpa storie molto eterogenee, tenta di far quadrare il bilancio dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ma le parti non sono sempre ben amalgamate, e i personaggi restano un po’ lì nel limbo. La vicenda del tassista è forse quella più riuscita, altre si perdono a metà strada e non le recuperi più. Comunque non è un difetto, o almeno lo è fino a un certo punto, e Heimatland dà del filo da torcere a tante produzioni che passano a Sitges: si parte con una bella scopata (prostituta immigrata più cinico uomo d’affari, di quelli simpatici però), si continua con un negro morto che appare in una cantina come il fantasma di Banquo, e si finisce con una marcia profughi dai risvolti politicamente scorretti. Non lamentatevi.
Interessante è anche il film greco della rassegna, Chevalier di Athina Rachel Tsangari. Si pensava al film contro, proprio come l’anno scorso quando si era scritto di A Blast, invece niente. Alcuni amici un po’ scemi vanno a fare una gita in yacht. A un certo punto uno di questi minorati propone un gioco perverso, che tutti gli altri, essendo ancora più minorati di lui, accettano senza remore: dare un punteggio al proprio compagno in base alla “giustezza” dei suoi comportamenti. Rutti a tavola? Meno un punto. Non ti lavi i denti almeno tre volte al giorno? Meno due punti. Ti sei dimenticato di togliere le scarpe prima di entrare in cabina? Decurtazione della patente. Uno di loro chiede aiuto per vedere chi è il primo ad accorrere e regalargli punteggio extra, un altro tenta di ingraziarsi il compagno perché gli dia una mano nei momenti di difficoltà, infine un tizio fa il patto di sangue piazzando la mano tagliata sul culo di un ciccione. La summa del degrado virile. Per non parlare del barbuto che gira per nave sbandierando un pisello dritto come un fuso: lo avevano accusato di non riuscire ad avere l’erezione… Il premio finale? Un anello Chevalier. L’idea è bella, la sceneggiatura funziona, ma purtroppo la cara Athina non preme abbastanza sull’acceleratore. O meglio, preme ma si ferma proprio quando il motore comincia a scaldarsi. Non finisce in tragedia, non c’è il melodramma, nessuna rivelazione del rimosso. Pensate a cosa avrebbe fatto un James Ballard con un tema del genere. O Tennessee Williams.
Il canadese Les Etres chers di Anne Èmond è forse la proverbiale grattata del barile. Stiamo parlando di un film di merda, però con un pregio: lo guardi fino alla fine nella speranza che vada a parare da qualche parte. Certo la conclusione è pari alle sue premesse, che sono quelle di un cinema velleitario, che fa della mancanza di coerenza la propria ragion d’essere. Eppure ti lasci catturare, convinto che presto giungerà la grande rivelazione. La storia è quella di un tizio qualunque che sposa una tizia qualunque: vanno tutti a vivere in una bella casetta in Canadà, mettono al mondo un paio di figli e producono bambolotti per pagarsi le bollette. Poi vengono le magagne: il tizio scopre che il padre non è morto di infarto, ma si è impiccato. Nessuno glielo ha detto, però tutti lo sapevano. Tizio si incazza un attimo, ma tutto torna subito alla normalità. La figlia cresce e si fidanza col vicino: questi è un biondino simpatico che in una sola scena (e ripetiamo: una sola scena di tre minuti) sente le voci e impazzisce. Ricoverato in manicomio. La ragazza resta sola e continua a crescere. Va all’università, vince il primo premio scrivendo una composizione degna di un Moccia con la diarrea, si fidanza con un bellimbusto e scopre che nel frattempo il padre si è impiccato pure lui. Come il nonno. Perché? La regista non ce lo spiega, così come non ci spiega perché il biondino ha dato di matto e quale sia il senso di tutto ciò a livello narrativo. D’accordo, c’è pure un fratello ubriaco che ogni tanto attacca briga. Anche qui senza motivo. Vedendo questa pellicola, non si capisce chi ci stia menando per il naso, se il selezionatore responsabile o il produttore che ha stanziato i fondi.
Più divertente invece Entertainment di Rick Alverson: siamo nel deserto californiano dove un comico che non fa ridere (Gregg Turkington) cerca di racimolare qualche soldo. È tutto un profluvio di parolacce, battute volutamente sfiatate, pernacchie e scoregge. Un clown dalla faccia stupida (Tye Sheridan) finge di masturbarsi in pubblico e di cagare nel cappello. Poi salta e muove le braccia come un pollo. John C. Reilly tenta di fare l’impresario e organizzare un business plan per questi due spiantati. Il punto è che in questo mondo a rovescio sono tutti tristi, depressi e malinconici, quindi un comico che fa pena in realtà non stupisce nessuno. Gregg ha però una crisi di coscienza: vorrebbe sfondare ma sa che non ne è capace, pertanto non accetta critiche e insulta tutti, anche se a conclusione di giornata corre a piangere e a telefonare a quella figlia che se ne frega di lui. Una sera una ragazza gli tira addosso un bicchiere e lui le risponde: “No, non hai tirato il bicchiere! Ti è partito mentre scivolavi sullo sperma che ti esce dal culo”. Quindi entra in un bagno e trova una partoriente che gli chiede aiuto. Sangue, dolore, disperazione: ne viene fuori un feto morto con due teste o qualcosa di simile. Non vi preoccupate, c’è anche la citazione di Antonioni: il deserto, la sabbia, la luce.
Piccola sorpresa da Fuori concorso: Topophilia di Peter Bo Rappmund. Un’ora di documentario che mostra, a velocità accelerata, un grande oleodotto americano e il percorso che questi compie tra montagne, fiumi e boschi. Nessun dialogo, pochissimi esseri umani. Solo inquadrature fisse sulla natura, il ghiaccio, la neve. Semplice, onesto e poetico.
Da Locarno, Marco Marchetti