La rivelazione della giornata viene da Berlino, ed è stata inserita nel Panorama Suisse. Dora oder Die sexuellen Neurosen unserer Eltern è un film di una regista svizzera di nome Stina Werenfels che tratta un tema bello forte, cioè il desiderio sessuale di una diciottenne ritardata, ma da un punto di vista politicamente scorretto. Il che significa, tradotto in soldoni, un sacco di riferimenti sessuali, odore di cose bagnate, succhi e risucchi, e qualche pudibonda schizzata di sperma. La giovane Dora (una bravissima Victoria Schultz: dopo Carla Juni e Maria Hofstaetter, i tedeschi si riconfermano maestri delle dive psicolabili) saltella in giardino durante la festa di compleanno: è allegra, si diverte, mangia, beve e corre in girotondo… fino a quando non vomita della roba schifosa e avvista, immerse nel suo stesso vomito, due lumache che strisciano l’una verso l’altra. Da quel momento è tutto un fiorire di simboli sconci, fiori oscenamente aperti, dolcetti fallici, pistilli e carote e zucchine e tutto ciò che ricorda il pene. O la vagina, ovvio, a partire dai melograni e le fragoline che la bella Dora, venditrice d’ortofrutta del tempo libero, non manca di maneggiare. Un giorno la giovane comincia a seguire un belloccio che esce da un negozio, entra in un bagno pubblico insieme a lui e approfitta dell’occasione per sedersi sul gabinetto e fare pipì. Ecco la seduzione: lei si lecca le labbra, gli dice qualcosa di impudico, e il tizio la violenta. Naturalmente a lei piace, quindi i genitori non hanno il coraggio di denunciare il manigoldo alla polizia. Se la disabile ci sta, è comunque da considerarsi stupro?
Il film è un caso psichiatrico, che come dice il titolo (Le nevrosi sessuali dei nostri genitori) riguarda più la famiglia che la giovane. Mamma e papà vivono infatti in un mondo tutto loro, in cui un disabile non è disabile fino in fondo, ma deve avere la possibilità di vivere una vita il più possibile normale. Nessuno lo dice, ma lo si evince dai loro comportamenti, sapientemente basati su una serie di reticenze e atti mancati. Quando Dora scopre di essere incinta, i genitori si affrettano a farla abortire, ma poi il suo amante la ingravida ancora, e questa volta nessuno si accorge dell’accaduto se non quando è troppo tardi. Il padre passa tutto il tempo a guardarsi in giro, non fa nulla, non pensa nulla, se ne frega. La madre, bieca rappresentante del pensiero radical moderno, manda la figlia ai corsi preparatori per partorienti, con risultati disastrosi a un passo dal catastrofico. La Werenfels non fa sconti a nessuno, è cattiva, arrabbiata, pesta duro strapazzando gli spettatori abituati a storielle allegre e moraliste. Il senso, tra i tanti che vi si possono trovare, è che un disabile psichico non potrà mai avere una vita equiparabile a quella di una persona cosiddetta normale (qualunque cosa si intenda con questa parola, ma tant’è…). Non puoi dare un bambino in affidamento a un ritardato, non è concepibile che un “diverso” si occupi di una famiglia proprio come si presume lo faccia una madre psicologicamente capace.
Dal Messico un film curioso a firma di Julio Hernàndez Cordòn: Te prometo anarquìa. Mah, difficile darne un giudizio esaustivo, d’altronde siamo dalle parti dei Cineasti del presente, quel contenitore dove butti tutto ciò che non sai smistare. Il terzomondismo è di casa a Locarno (sennò i critici non sanno di che scrivere), basta metterci un paio di ragazzotti gay che sfrecciano su uno skatebord, si arrabattano per guadagnare qualche soldo, fanno la citazione colta a I figli della violenza (1950) giusto per darsi aria da intenditori. Il pubblico ride, si emoziona, è contento. Non vi preoccupate, c’è anche il sesso omo. All’inizio un tizio si mette a cavalcioni sull’altro e comincia a saltellarci sopra, mentre verso il finale ci imbattiamo in una più occasionale cucchiaiata a mezzo busto. Spoon, la chiamano gli inglesi. Guai a rivelare troppo, vuoi che qualcuno storca il naso? Comunque c’è del buono: la pellicola è uno spaccato di violenza messicana, niente che possa anche solo lontanamente competere con Navajazo, premiato l’anno scorso nella medesima sezione, ma qualche frammento di poesia il regista riesce a comunicarlo. C’è la bestialità, c’è la disperazione, c’è il meccanismo perverso di uno stato criminoso che trasforma i poveri in delinquenti a loro insaputa. Se Cordòn avesse spinto di più sul versante del sesso, se avesse costellato la pellicola di erezioni ed eiaculazioni, il risultato sarebbe stato davvero un capolavoro. Invece promette, promette, promette… Certo l’inghippo era già nel titolo. Caveat emptor!
Da Locarno, Marco Marchetti