La famiglia Bowen versa in gravi difficoltà economiche. Papà Eric (Sam Rockwell) ha perso il lavoro e sta cercando di trovare lo spirito giusto – è proprio il caso di dirlo – per ricominciare a ingranare, scrollandosi di dosso i primi sintomi dell’accidia e della seduzione dell’alcol tipici dei disoccupati di lungo corso. Cambiare ambiente sembra l’idea più ragionevole, anche perché la nuova situazione finanziaria impone di trovare una casa dall’affitto più abbordabile. Dopo una serie di sopralluoghi fallimentari, Eric e la moglie Amy (Rosemarie DeWitt), insieme ai figli Kendra (Saxon Sharbino), Griffin (Kyle Catlett) e la piccola Madison (Kennedy Clements) si trasferiscono in una villetta, modesta ma dignitosa, facente parte di un complesso residenziale di periferia interamente circondato dai tralicci dell’alta tensione, all’interno del quale persino i telefoni cellulari stentano a trovare campo. Ma l’inquinamento elettromagnetico non c’entra, o c’entra solo in parte, con le strane manifestazioni che si verificano in quel luogo. L’intero quartiere, infatti, è costruito sopra un vecchio cimitero i cui ospiti trapassati sembrano essere imprigionati in una sorta di dimensione intermedia tra il mondo dei vivi e l’aldilà, la cui porta di comunicazione coincide proprio con la casa dei Bowen e con la rete elettrica annessa. Già dalla prima notte, la sfortunata famigliola comincia a vivere terribili esperienze paranormali, le quali, si fanno ogni giorno più violente, finché le anime defunte, tecnicamente dette poltergeist, rapiscono la figlia più piccola dei Bowen, le cui doti extrasensoriali hanno contribuito a ridare loro potere sulla realtà.
Realizzare il remake di un cult movie degli anni ottanta è di per sé un’operazione ardita, il più delle volte destinata a fallire. Come per tutti i cult, infatti, l’immaginario collettivo si è talmente focalizzato sui contorni dei personaggi, da rendere ogni reinterpretazione in questo senso un fastidio intollerabile. Sarebbe come pensare a Freddy Krueger senza cappellaccio, senza guanto di lame di rasoio o senza maglietta a strisce verdi e rosse, o a Jason senza maschera da hockey, o Letherface senza motosega; ma soprattutto, sarebbe come immaginarsi il mostro di Frankenstein privato dei quintali di make-up, viti e bulloni con cui, agli inizi degli anni ’30, quel mago di Jack Pierce sovraccaricò il volto di Boris Karloff, legando per sempre la grottesca maschera che tutti conosciamo alla figura del personaggio di Mary Shelley, al punto da disorientare il pubblico che ne verrà, persino di fronte a dignitose rivisitazioni più recenti, come il Frankenstein di Kenneth Branagh. Fin dagli albori della sua storia, il Cinema, soprattutto quello americano, ha compreso quanto potente fosse l’impatto esercitato dall’icona sullo spettatore e quanto pericoloso significasse discostarsene oltremisura. «Fra la storia e la leggenda, stampate la leggenda», diceva il grande John Ford. Per chi è cresciuto con Poltergeist – demoniache presenze di Tobe Hooper, vedere la piccola Caroline, vera e propria icona horror degli anni ’80 – qui ribattezzata Medison – con i capelli castani invece che biondi, rappresenta di per sé un’allarmante avvisaglia che, fin dall’incipit del film – un incipit, tra l’altro, veramente misero rispetto a quello dell’originale dell’82, nel quale, in tre minuti, Hooper era riuscito a racchiudere l’intera essenza della storia – fa presagire esiti catastrofici. Già nello scorrimento delle prime immagini, si ha la sensazione che Gil Kenan non voglia compromettersi troppo con la leggenda, ma se, da un lato, dimostra l’audacia di ricusare l’icona, dall’altro evidenzia il limite di restare in tutto e per tutto fedele al testo originale, convinto di poter annegare il mito dentro i fuochi d’artificio della retorica orrorifica, quella stessa retorica che il primo Poltergeist, con i suoi germinali feticci – la casa infestata, lo schermo del televisore che mette in comunicazione con l’altra dimensione, la bambola-pagliaccio, gli oggetti che volano, l’armadio che nasconde presenze inquietanti –, aveva contribuito a creare, ma che qui, a trent’anni di distanza, non fa che alimentare la sensazione di trito e ritrito tipica del peggior film di genere. Kenan finisce così per banalizzare la vecchia sceneggiatura di Steven Spielberg, qui affidata al premio Pulizer David Lindsay-Abaire, senza approfondire alcunché dei suoi aspetti più interessanti, a cominciare dal rapimento della piccola Medison, vero e proprio fulcro dell’opera di Hooper, facendo della storia una battaglia semi fantascientifica con l’aldilà, con tanto di stargate infuocati e svolazzamenti pseudoalieni. Nel film dell’82, la piccola Caroline non si vede mai durante la sua permanenza tra i poltergeist, e tuttavia la presenza di lei è forte, costante, incombente. La bimba vive nella consistenza fisica dei familiari, nella loro disperazione, nella loro voglia di riportarla indietro dal limbo, nel loro amore. Strepitosa, nell’originale, è la scena in cui la piccola attraversa il corpo della madre, lasciandole il proprio odore sui vestiti. Il tutto senza mostrare nulla – né ombra, né suono – solo un soffio di vento sul volto di JoBeth Williams, contando totalmente sulla forza del copione e della recitazione: «Oh mio Dio! L’ho sentita, ho il suo odore addosso! Odora i miei vestiti. È lei, è lei! Ce l’ho dappertutto. La sento dappertutto». Ad alcuni potrà sembrare bizzarro, ma anche l’horror ha una sua intima poesia.
Kenan, invece, sceglie la strada “pornografica” del vedere a tutti a costi, operazione più che legittima in talune circostanze, ma completamente fuori luogo in questo contesto, così da togliere al proprio lavoro quella suspense che, con i suoi silenzi, le attese, la sottoesposizione dell’immagine fotografica, il crescendo psichedelico del finale, aveva fatto la grandezza dell’originale.
Poltergeist 2015 è un carosello di colori e suoni, nel cui marasma autoreferenziale sceneggiatura e attori scompaiono quasi completamente, risolti in banali caricature scevre persino di quel carattere ridicolo e parodistico che aveva reso apprezzabili ironiche rivisitazioni horror del calibro di Per favore non mordermi sul collo di Roman Polanski o Riposseduta di Bob Logan, tanto per citare due titoli.
La verità è che se ti cimenti nel remake di un classico del passato, la compromissione con il mito è un’operazione del tutto obbligata. Ed è proprio da essa che l’autore dovrebbe partire, facendo del noto la base solida per spingersi oltre. L’“oltre” verso cui questa ennesima rivisitazione decadente si spinge, però, è di aggiungere un’inutile, stantio prodotto ai già molti presenti sul mercato inflazionato del cinema dell’orrore, alimentando il disordine di un genere narrativamente moribondo, incapace ormai di trovare tanto linguaggi espressivi nuovi, quanto spunti contenutistici in grado di trascenderlo.
Manuel Farina
Poltergeist
Regia: Gil Kenan. Sceneggiatura: David Lindsay-Abaire. Fotografia: Javier Aguirresarobe. Montaggio: Jeff Betancourt. Interpreti: Sam Rockwell, Rosemarie DeWitt, Saxon Sharbino, Kyle Catlett, Kennedy Clements, Jared Harris, Jane Adams. Origine: USA, 2015. Durata: 93′.
https://www.youtube.com/watch?v=JUzj2SU6N7o