Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
Manglehorn
Regia: David Gordon Green. Sceneggiatura: Paul Logan. Fotografia: Tim Orr. Montaggio: Colin Patton. Musica: Explosions in the Sky, David Wingo. Interpreti: Al Pacino, Chris Messina, Holly Hunter, Harmony Korine. Origine: USA, 2014. Durata: 97′.
David Gordon Green, quarantenne dell’Arkansas, è uno di quei registi strani che non sai mai dove mettere. Lo infili al festival di Venezia, poi lo distribuisci in sordina oppure non lo distribuisci affatto perché tanto nessuno se ne accorge. Purtroppo. È bravo, ha talento, sa dirigere ma non è un genio né un mestierante. Sembra semmai uno di quei ragazzotti che a scuola si impegnano giusto per compiacere gli insegnanti, traducono il latino come Dio comanda, leggono i classici ma poi, giunti al dunque, hanno paura di sfruttare appieno le proprie potenzialità. Con Joe era successa un po’ la stessa cosa: film da Sundance, dialoghi più lunghi della morte, il paesaggio che fagocitava i piccoli peccati che la vita di provincia, la vita da boscaiolo e ubriacone, non manca di farti commettere. Non male, per carità, ma non meritava altro che una tiepida ovazione di incoraggiamento. Adesso è la volta di Manglehorn, e il risultato riesce a essere a tratti sorprendente. Green ha sfruttato la sua pellicola precedente come trampolino di lancio, una specie di laboratorio dove allenarsi a martellare quelle superfici che non volevano saperne di stare al loro posto. Se Joe era un frutto ancora acerbo, tedioso, in buona sostanza un po’ furbetto, Manglehorn è invece un’opera più matura e ragionata, che non ha la pretesa di essere un capolavoro, ma nemmeno la sfacciataggine di un filmetto di ripiego.
Manglehorn (Al Pacino, settantacinque anni) è un fabbro di Austin, uno che sta tutto il giorno nella sua bottega senza rompere le scatole a nessuno; nel tempo libero si prende cura della propria gatta, gioca con la nipotina che vede una volta ogni tanto, pranza con quel figlio che vede ancora di meno. La sua specializzazione è fabbricare chiavi, aprire porte e serrature, dotare le case di sistemi di sicurezza. Un giorno la sua gatta inghiotte una chiave che apre una cassaforte molto particolare… Manglehorn è tutto qui. Nessuna storia, nessuna trama, soltanto immagini, percezioni, frammenti di vita che si affastellano, minuto per minuto, attorno all’ambigua figura di questo artigiano. Svelando e suggerendo nuove possibilità, nascondendo ulteriori combinazioni. Green pensa al suo film come a un flusso di coscienza, potente ma discontinuo, che coincide con il punto di vista del protagonista, e che ci permette di vedere il mondo, la sua esistenza, il suo tormentato passato, attraverso il filtro deformante dei ricordi. L’operazione è complessa, coraggiosa, e in buona parte riuscita. Manglehorn non ha un asse di simmetria, ma una molteplicità di appigli su cui il regista costruisce la sua interpretazione dei fatti. Alle volte crudele, alle altre generoso, disincantato e prigioniero dei rimpianti, ironico e speranzoso, questo fabbro texano è tutto e il contrario di tutto, si adatta camaleontico all’opinione che i suoi conoscenti sembrano suggerire, inganna lo spettatore mostrando all’ultimo una sfaccettatura di cui ben pochi si erano davvero accorti. Chi è Manglehorn? Chiunque e nessuno, proprio come insegna Pirandello. La nostra vita è ciò che gli altri pensano o non pensano di noi, una casa dalle fondamenta traballanti tenuta assieme dai ricordi, le colpe, le responsabilità; insomma da ciò che ci determina nelle nostre relazioni con il mondo circostante.
Green costruisce il suo film per giustapposizione, come un pittore che mescola i colori senza preoccuparsi troppo di separare le campiture. Punta all’astrattismo, alla mancanza di forma, alla dilatazione del racconto. È sul dialogo, allora, che si concentra la sua attenzione, su quelle parole che non comunicano nulla, che stordiscono, obnubilano, e che quando puntano al profondo, lo fanno sempre con la crudeltà di una coltellata. “Perché fai il coglione?” chiede Manglehorn a suo figlio (Chris Messina) quando questi ostenta la propria ricchezza portandolo in un costoso ristorante del centro, “Se volessi parlare con un coglione, andrei a casa, mi guarderei allo specchio e parlerei con me stesso”. Ognuno è prigioniero di qualcos’altro, in questo film, il figlio schiavo dei soldi, il padre delle sue ferite, e soprattutto di un antico amore, accennato già nei titoli di testa con una sfilata di lettere rispedite al mittente, che in passato ha sfiorato le soglie dell’ossessione. Per questo Monglehorn non riesce ad amare, né quella moglie ormai morta a cui aveva dato un figlio soltanto per renderla contenta, né la sua corteggiatrice di oggi (Holly Hunter), che adora la vita tanto quanto il suo spasimante si sente attratto dalla solitudine. E nemmeno quelle prostitute che il suo amico Gary (Harmony Korine) gli offre in segno di amicizia. Ma qualcosa in lui sta cambiando. Forse il merito è di quella chiave che ristagna nella pancia del gatto.
Marco Marchetti