Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
Wild Horses
Regia: Robert Duvall. Sceneggiatura: Robert Duvall. Fotografia: Barry Markowitz. Montaggio: Cary Gries. Musica: Tim Williams. Interpreti: Robert Duvall, James Franco, Luciana Pedraza, John Hartnett, Angie Cepeda. Origine: USA. Anno: 2015. Durata: 102 min.
Wild Horses, di e con Robert Duvall, non è un film per tutti. È noioso, zoppicante, di una lentezza quasi compiaciuta, eppure ha parecchie cose da dire, e questo lo rende molto interessante anche agli occhi dei profani. Il punto è che ci sono pellicole per il pubblico, e altre che si rivolgono a una ristretta cerchia di intenditori. C’è cinema per il grande schermo, e ci sono film da salotto. Un po’ come per il vino, lo spumante va con il dolce, il rosso per la grigliata e il bianco frizzante per i cibi più delicati. Se mescoli le cose, succede un gran pasticcio. Robert Duvall, ormai ottantaquattrenne, è arrivato a fare i conti con la propria esistenza, e forse un po’ anche con la sua longeva carriera da attore. Pertanto fa il difficile, sceglie film complessi (tutti crepuscolari), in cui si dilunga sul rapporto tra padri e figli, vecchi e giovani, e sulle colpe che i primi si trascinano dietro facendole spesso ricadere sui secondi. Il giudice (2014) di David Dobkin metteva a confronto la pubblica morale di un magistrato con le sue debolezze private, e faceva un ragionamento su come i genitori si sentano costretti a riprendere il rapporto con i figli quando ormai è forse troppo tardi. Di conseguenza, quello, era un film sulla morte, o su ciò che non siamo riusciti a fare in vita e ci affanniamo perciò ad aggiustare. Wild Horses anche, benché sia ancora più melanconico del precedente, più elegiaco, più tragico.
Qui siamo nel Texas. Scott Briggs (Duvall) è un vecchio possidente da profondo sud, uno di quelli che leggono la Bibbia per colazione, sparano ai messicani che cercano di attraversare il confine, odiano i froci di un odio profondo ma giusto. Quando Briggs scopre il figlio Ben (James Franco) appartato nel fienile con un suo coetaneo, per di più ispanico, scoppia il finimondo. Ben viene cacciato di casa con una pistola puntata alla testa, e il suo amante scompare nel nulla. Così, come se non fosse mai esistito. Qualcuno parla di suicidio, le autorità prendono la cosa sottogamba, di sicuro il corpo non viene mai ritrovato. Passano gli anni, quindici per l’esattezza, e Briggs senior tenta di riavvicinare quel giovane costretto all’esilio. Ben torna a casa, rivede i fratelli (Josh Hartnett e Angie Cepeda), ma quando tutto sembra andare per il meglio, un’ambiziosa Texas Ranger (Luciana Pedraza, quarta moglie di Duvall, di quarantun anni più giovane; magra, in divisa e con la faccia da topo: uno schianto) sembra decisa a scavare nel passato dell’uomo. Che diamine ne è stato di quell’adolescente volatilizzatosi tra le sterpaglie? Cos’è successo davvero quella notte? Scott Briggs è in qualche modo coinvolto con la sua presunta morte?
Robert Duvall pensa al proprio film come a un’opera anziana, datata, che lentamente si sfalda in una deriva di suggestioni, ricordi in bilico tra compianto e commiserazione, reminiscenze destinate a confondersi tra le steppe del Texas, le sue montagne, le sagre di paese pullulanti di rustici cowboy che ancora perdono le staffe quando sentono parlare di omosessualità. Non c’è un centro narrativo, l’attenzione del regista si sposta di continuo dall’introspezione al noir, dal flusso di coscienza al poliziesco, senza dire nulla ma suggerendo tutto. Non è così pure la mente dei vecchi? Capricciosa un giorno, precisa come un bisturi quello successivo, fatta di lacrime e disavventure quello dopo ancora… Duvall non sa decidersi perché non vuole decidersi. Il film è suo, un fatto privato come una scatola di sigari o una traboccante pinta di birra texana. Non gli interessa l’opinione dello spettatore, il senso del ritmo, la velocità. Questa è robetta per giovani, proprio come la droga che nottetempo le bande messicane tentano di portare oltre il confine, e che il vecchio Duvall, pistolero d’altri tempi, impallina con il suo fedele fucile. Wild Horses è il canto del cigno di un’epoca, destinata a concludersi sugli ultimi sopravvissuti di un’antica schiatta di maschi cavallerizzi. Ed è, al tempo stesso, una malinconica ballata dell’odio e dell’amore, del perdono e della redenzione. È questo che succede giù al sud: gli uomini sono cattivi, bifolchi e campagnoli, tutto puzza di rancido e gli affari si stipulano con una virile stretta di mano. Non c’è spazio per i gay come non ce n’è per le mezze calzette. Ben lo sa, suo padre lo sa, lo sa persino quella madre che dopo quindici anni non si è ancora arresa di fronte dell’inevitabile, e che continua a sperare che il corpo del figlio le venga restituito.
Nella sua quarta prova da regista, Robert Duvall presenta la colpa, ma (forse) non la remissione. Non bastano le parole per cancellare le macchie, non servono i buoni propositi per purificare la coscienza. Gli strappi dell’anima si possono rattoppare, mai ricucire. Duvall ce lo insegna a modo suo, con una pellicola frammentaria, quasi incompleta, che mescola pezzi e intuizioni, che lega stralci di memoria con affondi improvvisi nell’attualità, il dramma personale di una famiglia e l’ordinaria brutalità di uno stato violento e sanguinario.
Marco Marchetti