Cosa si può dire su Profondo rosso che già non sia stato detto? Parlare di questo film è un’impresa audace, pericolosa, addirittura suicida. Sarebbe come scrivere un libro su Silvio Berlusconi aggiungendo qualcosa di nuovo, come discorrere dell’ovvio senza cadere nel banale. Allora è meglio lavorare per sottrazione, cominciando ad affermare il contrario di ciò che ancora si è soliti pensare. Profondo rosso, distribuito per la prima volta il 7 marzo 1975, non è un giallo-thriller. E forse nemmeno un horror. Non lo è per una serie di ragioni. Per esempio non ha regole precise, o perlomeno non ha le regole precise di un classico: non è importante tenere a mente la trama, quello che succede tra un omicidio e l’altro, e non è nemmeno indispensabile sapere chi è l’assassino, che in fin dei conti uccide con un modus operandi assai insolito per una donna (così dicono i più comuni abbecedari di criminologia). Le donne avvelenano, usano la pistola, insomma scelgono delle morti delicate, prive di contatto diretto, per così dire asessuate. La Clara Calamai del film si comporta come un uomo, uccide a colpi di mannaia, fracassa le teste, gode facendo sgorgare il sangue. E non si ritaglia alcun ruolo principale nella pellicola, almeno a escludere la sua fugace apparizione, subliminale, tra le mostruose pitture di Enrico Colombotto Rosso nello stabile abitato da Gabriele Lavia.
No, Profondo rosso è un grande viaggio nell’allucinazione, che non ha nulla a che fare con la coerenza del poliziesco o del thriller all’italiana. Tanto il giallo classico è geometrico, convergente, prevedibile, tanto il capolavoro di Dario Argento si inabissa nell’arzigogolo, nel fronzolo, nel cascame da passamaneria; più il noir da manuale spiega ciò che deve essere spiegato, riconducendo tutto all’ovvio, all’esegesi del delitto, all’eziologia del crimine, e più Profondo rosso scombina le carte aprendosi alle suggestioni, alle visioni tremolanti, alla schizofrenia dell’immaginario. Che cosa ricordiamo di questa pellicola a distanza di quarant’anni esatti? La sinossi, il garbuglio di spiegazioni psicoanalitiche tirate per i capelli, le schermaglie amorose tra la Nicolodi e David Hemmings? Di tutto questo non ce ne può fregare di meno. Ciò che resta impresso è il contorno, la presentazione, l’estetica della confezione. La bambina dai capelli rossastri (Nicoletta Elmi, già attrice per Mario Bava), i bambolotti impiccati che si ritrova a maneggiare Giuliana Calandra prima di essere brutalmente assassinata, il perturbante manichino a molla che sghignazza nello studio dello psichiatra, il corridoio pieno di inquietanti dipinti, preludio della mattanza finale, quando il mistero è svelato e una collana incastratasi tra le cremagliere di un ascensore scriverà il viscerale epitaffio… E non dimentichiamoci naturalmente la colonna sonora dei Goblin. Profondo rosso è allora una grande opera musicale, un po’ come lo sarebbero stati Suspiria (1977) e Inferno (1980) di lì a poco, il primo con una soundtrack che ha fatto scuola (tanto da essere recentemente remixata persino da Marilyn Manson) e il secondo con il brano Mater Tenebrarum di Keith Emerson. È la forma a guidare la mano del Maestro, l’amore per le apparenze, i colori, le rappresentazioni mefistofeliche dell’inconscio. Che siano grandi case che hanno ingurgitato cadaveri, disegni freudiani nascosti dall’intonaco, nenie infantili che risuonano sul corpo di padri ammazzati a coltellate, la composizione è sempre la scusa ideale per inscenare il massacro. L’estasi di un delitto. La bellezza del degrado. Non è un caso che nel 2007 Marco Calindri abbia tratto proprio un musical dall’opus magnum di Argento, sotto la diretta supervisione musicale di Claudio Simonetti…
Non sarebbe nemmeno corretto definire Argento come il più prossimo degli hitchcockiani. Argento stava a Sir Alfred come Salvador Dalì a Gustave Moreau: l’uno precursore dell’altro, parente prossimo, padre putativo, ma formalmente piuttosto distanti, appartenenti a epoche diverse e a differenti sensibilità. Argento viene subito dopo Bava, e quindi è baviano ancor prima che hitchcockiano. I punti in comune con il maestro di Sanremo sono molteplici: medesimo gusto per il barocco, stessa seduzione per le tinte forti, un’attrazione quasi carnale per quella debordante appariscenza che rischia sovente di soverchiare la coerenza narrativa. E le donne, ricordiamo. Non è stato certo Argento a introdurre l’Erinni vendicatrice dall’impermeabile e guanti scuri, bensì il precursore Bava in Sei donne per l’assassino (1964). La violenza esasperata, l’ossessione per il raccapricciante, il dettaglio macabro non rappresentano comunque che un punto di arrivo, il completamento di una mutazione o di un percorso cinematografico che comincia ufficialmente nel 1971 con Reazione a catena (ancora Mario Bava alla regia), per poi sfociare, sul finire del decennio, nell’estremismo di un Fulci o di un Deodato. Profondo rosso sta un po’ a metà strada, completa ciò che il suo mentore aveva inaugurato e anticipa la poetica dell’annientamento corporale tanto cara ai successori. Per questo possiamo dire che quel 7 marzo fa da data spartiacque per il cinema italiano, e che c’è un cinema (di genere?) prima di Profondo rosso e un cinema (degenere?) che è venuto subito dopo. Come una costola, un’escrescenza, un feto abortito non troppo diverso dai bambolotti deformi del film.
Marco Marchetti