«Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi».
La conclusione della novella di Federigo degli Alberighi è il trionfo della conciliazione tra due mondi ideologicamente lontani: quello della vecchia nobiltà cortese e quello della nuova borghesia mercantile. A vederla trasposta, ultima delle cinque novelle scelte, nel film dei fratelli Taviani Maravigioso Boccaccio, ci coglie un senso di fastidio. L’avevamo coltivato per gran parte del film, ma siamo dovuti arrivare in fondo per capire meglio di che cosa si trattasse. Il fatto è che Federigo ha dall’inizio alla fine la stessa espressione: quella – sia detto con rispetto – dello sfigato. Federigo è un personaggio d’altri tempi, e nel raccontarne le vicissitudini Boccaccio aggiorna un tema di antica tradizione, anche letteraria: quel complesso di idee, comportamenti, pose e valori chiamato cortesia. Boccaccio ha rispetto per quel mondo (e umana simpatia per Federigo), ma, consapevole che lo spirito dei tempi è cambiato, sa bene che non c’è più spazio per certi eccessi e che l’orgoglio del suo protagonista rischia, da un momento all’altro, di sfociare in tragedia. Non per nulla il tono e lo stile della novella sono particolarmente elevati, come si conviene alla dignità dei personaggi e soprattutto dell’argomento. A salvare Federigo, a sottrarlo al destino tragico cui sembra avviato, sarà proprio il gesto estremo del sacrificio del suo falcone, simbolo stesso di quel mondo nobiliare di cui nulla più sopravvive.
Ma nella versione filodrammatica per immagini dei Taviani, i valori simbolici e il senso profondo del finale della vicenda (non tragica ma lieta, come prescrive il tema della giornata) sbiadiscono di fronte alla noia della messa in scena e della scrittura. Nella conversione di Federigo, diventato dopo il matrimonio “miglior massaio” delle sue nuove ricchezze, c’è il sugo della storia, nonché tutta l’ironia del narratore: esattamente ciò che il film fatica a trasmettere.
Ed ecco che, retrospettivamente, capiamo perché non siamo riusciti a ridere nemmeno nelle novelle che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto raggiungere tale scopo: quella di Calandrino e quella della badessa Usimbalda. Invano abbiamo cercato tracce della vena spigliata e briosa della prosa boccacciana (e nel secondo caso anche boccaccesca) nella regia o nella recitazione (anche se abbiamo ceduto per un attimo quando abbiamo sentito Paola Cortellesi nei panni della badessa redarguire la novizia: ci sembrava di vedere l’imitazione della Santanchè).
Fatichiamo davvero a credere che, a più di quarant’anni di distanza dalla personalissima e censuratissima rilettura di Pasolini, il Decameron possa essere rappresentato solo come una serie di quadri teatrali. Quasi che, invece di cogliere lo spirito vivo che serpeggia in un’opera innovativa e narrativamente complessa, il miglior omaggio che le si potesse fare fosse celebrarne la letterarietà. A partire da quel maraviglioso del titolo (con la a!) per passare all’insistita fiorentinità della dizione (con punte di ridicolo preoccupanti) e finire con l’artificiosità della cornice e la teatralità della messa in scena. Ma restituire Boccaccio alla sua epoca e alla sua lingua a colpi di dialoghi affettati, dizione impostata, gesti ricercati e costruiti è un’operazione pseudo-colta che ci ricorda la compiaciuta venerazione con cui molti avvicinano i classici: per far vedere di averli letti e capiti, vogliono a tutti i costi (re)citarli. Maraviglioso Boccaccio è liberamente ispirato al Decameron di Giovanni Boccaccio in edizione BUR, come si legge nei titoli di coda: insomma più che un film un saggio di drammaturgia, con tanto di indicazioni bibliografiche.
Roberto Mandile