Il potere. La supremazia. La manipolazione. In fin dei conti il concetto stesso di sport si riduce a questo trittico di sostantivi interconnessi, il primo che fa da ponte al secondo, il secondo che conduce inevitabilmente al terzo. Lo sport non rappresenta che la mistica della violenza, la sublimazione della rabbia, il razzismo più becero paludato da glorioso idealismo (non necessariamente a stelle e strisce, anche se il film in questione punta il dito proprio sul patriottismo americano). L’arte di vincere, tra l’altro titolo di un precedente film di Bennett Miller, coincide con l’arte di essere americani, che a sua volta comprende un lungo corsus honorum di attività fisiche violente, spesso preambolo della guerra o di quelle cose in cui si eccelle oltreoceano. In Foxcatcher c’è praticamente tutto, a partire da un prologo così potente da scambiarsi per una scena di Million Dollar Baby: Mark Schultz (Channing Tatum), ex campione olimpico di wrestling, è un baldanzoso ventisettenne senza alcun futuro. Zio Sam si è dimenticato di lui, e tutto ciò che gli resta da fare, per racimolare soldi, è organizzare conferenze sullo sport negli auditorium delle scuola elementari. “Vi voglio parlare dell’America” dice al suo sparuto pubblico di minorenni, “e della ragione per cui lotto”. A quel punto solleva la medaglia d’oro delle Olimpiadi e la mostra come un sacro trofeo alla sala. L’America è una questione di onore, la lotta (reale e figurata) un fatto di distintivi. Schultz rappresenta l’eroe americano per eccellenza, il marine senza divisa, un bestione mesomorfo tutto muscoli, faccia scimmiesca e forse poco cervello; uno che non accetta la propria condizione di reietto, di orfano, uno che vuole fare di tutto per tornare alla ribalta.
È per questo che un giorno il milionario John E. Du Pont (Steve Carell), rampollo di una delle famiglie più potenti del paese, e guarda caso produttrice di armi dai tempi della Guerra di Secessione, decide di contattarlo. È un uomo molto strano, Du Pont: basterebbe quella sua voce raschiante (doppiata molto bene da Pasquale Anselmo) per spaventare chiunque. Ma non Mark Schultz, non questo ragazzone destinato a vincere nuovamente l’oro di Seul. La proposta di Du Pont è d’altronde allettante: trasferirsi a Foxcatcher, la sua immensa tenuta, per allenarsi duramente sotto la sua supervisione. L’obiettivo è vincere le prossime Olimpiadi, rendere grande l’America proprio come da secoli i Du Pont rendono grande l’esercito con le continue forniture di carri armati e mitragliatrici. Alle spese ci pensa l’eccentrico milionario, al sostentamento di Mark anche. Fin qui niente di strano, se non che il rapporto tra i due comincia presto a degenerare. Soprattutto quando Du Pont convince il fratello di Mark, Dave (Mark Ruffalo), a prendere parte agli allenamenti. Allenarsi assieme, vincere assieme, competere assieme… E se Mark non fosse più il favorito di Du Pont? Se il suo precettore, l’adorato punto di riferimento, l’amico che non ha mai avuto, sentisse di amare Dave più di quanto abbia mai amato il suo discepolo?
Già autore del pluripremiato Truman Capote – A sangue freddo, Bennett Miller si ispira a un fatto di cronaca nera abbastanza celebre negli Stati Uniti, cioè la schizofrenia che portò il ricchissimo John Du Pont a compiere un terribile, immotivato delitto. Il regista preferisce però articolare il suo racconto per ellissi, riducendo la follia dell’uomo a qualcosa di strisciante, mutando la paranoia nella morbosa perversione che pian piano finisce per legare mentore e discente, padre e figlio, amato e amante in un rapporto psicologico dove nulla è dichiarato, ma tutto è suggerito. A Foxcatcher, questa tenuta dispersa nel verde, solcata dagli elicotteri privati dell’influente proprietario, costellata di alberi e scuderie, si consuma un dramma della gelosia in salsa (inconsapevolmente) omosessuale. Non ci sono donne, tranne la moglie di Dave, e nessuno dei presenti è sposato o si dedica comunque a pratiche erotiche. Il triangolo amoroso tra Du Pont, Mark e Dave resta platonico, intrappolato nella tensione al dominio dell’uno, caratterizzato dalla tendenza al martirio dell’altro. L’allenatore veicola il proprio anelito al controllo attraverso l’uso del denaro, il giovane pupillo accetta di esserne soggiogato in virtù della sua mancanza di benessere sociale, quindi di approvazione e integrazione nel gruppo. La figura di Dave fa da tramite tra gli opposti, da ipotenusa tra due vertici orrendamente destinati all’annientamento. The Pursuit of Happiness. Questa è l’America. Le motivazioni di questo sadomasochismo sono tutte freudiane, e scomodano persino la madre del perfido Du Pont (una straordinaria Vanessa Redgrave vestita di scarlatto) che ha fatto del controllo sul figlio, e quindi della sua repressione, il proprio fronzolo pedagogico. Ognuno punisce qualcun altro per punire se stesso, Du Pont sottopone l’apprendista alle proprie diaboliche macchinazioni finendo per disgregare il proprio ego; Mark subisce l’umiliazione del maestro per castigarlo attraverso la propria mancanza di disciplina. Il sadico è anche un masochista, perché gode del dolore che procura all’altro.
Foxcatcher affonda la lama nel lato oscuro dello sport, quel sistema di equilibri precari tra volontà di potenza e desiderio di soggezione, autorità e ubbidienza. La scelta degli attori è talmente perfetta che di meglio non si poteva fare, Channing Tatum con la sua fisicità prorompente, i deltoidi di un nuotatore, la faccia ingessata di un lottatore; Steve Carell con quello sguardo gelido e il sorriso perfido da padrone. Siamo abbastanza lontani dall’epica dell’elegia di un Clint Eastwood, dalla competizione come metafora della solitudine contemporanea. La pellicola di Miller svela infatti i meccanismi psichici alla base dell’attività sportiva, quel limbo di manipolazione reciproca in cui, per lo spirito di squadra, per amore della sfida, ogni cattiveria viene giustificata, santificata e nobilitata. Foxcatcher dovrebbe essere proiettato obbligatoriamente nelle scuole. Se non ci pensasse il cinema a demistificare l’aura di sacralità dello sport, chi se ne assumerebbe la responsabilità? Non certo gli allenatori a cui gli sprovveduti genitori affidano i propri figli, né gli insegnanti che vedono ancora nell’agonismo l’ideale processo di maturazione pedagogica dei giovani.
Marco Marchetti
Foxcatcher
Regia: Bennett Miller. Soggetto: Mark Schultz. Sceneggiatura: Dan Futterman, E. Max Frye. Fotografia: Greig Fraser. Montaggio: Stuart Levy. Interpreti: Channing Tatum, Steve Carell, Mark Ruffalo, Vanessa Redgrave. Origine: USA, 2014. Durata: 134′.