Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
The Captive
Regia: Atom Egoyan. Sceneggiatura: Atom Egoyan, David Fraser. Fotografia: Paul Sarossy. Montaggio: Susan Shipton. Musica: Mychael Danna. Interpreti: Ryan Reynolds, Rosario Dawson, Bruce Greenwood, Scott Speedman. Origine: Canada. Anno: 2014. Durata: 112 min.
È una vera e propria ossessione per l’infanzia rubata, quella che muove la macchina da presa di Atom Egoyan, che dopo Devil’s Knot – Fino a prova contraria torna a ispirarsi alla cronaca nera per raccontare una vicenda al limite dell’assurdo. Se nella pellicola precedente veniva narrata la storia dei Tre di West Memphis, un gruppuscolo di ragazzotti ingiustamente incarcerati per lo stupro/omicidio di alcuni bambini, Alla base di The Captive c’è invece la scomparsa (reale) di un minore, un volto sorridente appeso in tanti manifesti per le stradicciole della città, un’immagine ripresa, riproposta e amplificata dall’apparato mediatico che a suo tempo ne seguì il caso. Egoyan parte da questo canovaccio, e insieme allo sceneggiatore David Fraser finisce per mostrare ciò che i giornali hanno soltanto supposto, ovvero il luogo misterioso, terribile e ombratile in cui gli orchi conducono le loro vittime. Il risultato non è allora né un film biografico né realistico, ma puramente verosimile. Perché in fin dei conti un bambino non scompare nel nulla, c’è qualcuno che lo rapisce e qualcun altro che ne abusa.
Qui siamo nel cuore della provincia canadese: fa freddo, la neve ingombra gli incroci, le case si perdono nella campagna che a sua volta si perde nel bianco dell’orizzonte. Un uomo (Ryan Reynolds) fa sosta per alcuni minuti in un’area di servizio, compra qualcosa da mangiare e subito torna in macchina per scoprire che la sua bambina, Cassandra, è scomparsa nel nulla. Inutili le richieste di aiuto, le indagini, le investigazioni. Gli esperti poliziotti (Rosario Dawson, che a dispetto del nome è una gran bella donna, e Scott Speedman) promettono mari e monti ma, come da tradizione, restano a grattarsi la pancia mentre i sospetti si concentrano sul padre. Sospetti assolutamente indiziari, ma tanto basta a scatenare una strisciante caccia alle streghe. Nulla viene detto o dichiarato, ma si sa come funzionano queste cose… Passano gli anni, e presto scopriamo che la giovane Cassandra (Alexia Fast) ha ormai raggiunto i vent’anni o poco meno, vive prigioniera in un sotterraneo, guardata a vista da un uomo all’apparenza gentile (Bruce Greenwood) e costretta a gestire una piattaforma web grazie alla quale attirare tanti altri bambini… Sì, come spesse volte succede la vittima si identifica con il proprio carnefice, ne comprende le perversioni, arriva a giustificarne i delitti sottomettendosi alla sua spaventosa volontà di compiere il male.
Il film di Egoyan si muove per diversi piani temporali, ognuno dei quali segnalato dall’apparizione di una data all’inizio della scena; il suo obiettivo si sposta sulla linea cronologica, balza in avanti negli anni, quindi torna indietro ad approfondire una certa sfumatura, un argomento abbandonato a metà, uno snodo altrimenti importante ma sospeso opportunamente per stimolare la curiosità dello spettatore. È un’operazione complessa e senza dubbio coraggiosa, ma la bravura tecnica del regista consiste proprio nel procedere senza perdere pezzi, senza concedersi inutili digressioni e saldando i frammenti che in mani meno esperte sarebbero rimasti scollegati. Certo la pellicola ha qualche difetto, bisogna ammetterlo: Rosario Dawson viene rapita nel mezzo di un ricevimento di beneficenza, telecamere e testimoni e agenti di sicurezza a monitorare la scena. Possibile che nessuno se ne accorga? Ma poi perché sequestrarla proprio in un’occasione tanto rumorosa? Anzi, perché sequestrarla tout court? Egoyan non ce lo spiega, né lo lascia intuire, così come d’altronde risulta un po’ forzato il tentativo di ricorrere alla tecnologia (internet, microspie ecc.) per paventare una nuova schiatta di pervertiti videoamatori, guardoni disposti a pagare per spiare nelle stanze della gente. L’idea era interessante, ma il regista ci mostra poco o nulla di questa “evoluzione di costume”. La sua scelta, estetica, linguistica e cinematografica, è infatti quella di procedere per ellissi, per sottrazione, per rimozione dell’osceno. Cosa nobile e giusta, per carità, e infatti nel complesso il film è comunque più riuscito del precedente Devil’s Knot. Il punto di forza è come sempre la regia, inquietante, distaccata e glaciale come le distese innevate, i movimenti di macchina che delicatamente si insinuano per i ventri misteriosi delle case, le cantine, le stanze segrete. Rivelando il raccapriccio, svelando la depravazione. E cosa c’è di più depravato, oscuro e suggestivo di un pedofilo ossessionato dal mozartiano Il flauto magico? In una scena l’azzimato Bruce Greenwood si mette a cantare in falsetto La regina della notte davanti allo specchio. Tira vento di genialità dalle parti del Canada…
Marco Marchetti