Di matrimoni difficili al cinema ne abbiamo visti tanti; di matrimoni fondati sulla menzogna pure. A noi, che siamo facilmente impressionabili e di ricordi datati, vengono in mente le storie delle tante sposine cinematografiche degli anni Quaranta che, dopo aver fatto il grande passo, vengono a scoprire che l’amato nasconde un segreto inconfessato o un progetto di vita non propriamente idilliaco. Il volto di Joan Fontaine, che per Hitchcock recitò in Rebecca-La prima moglie (1940) e Il sospetto (1941), si è prestato alla perfezione a fornire il modello: il marito le teneva nascosta, in entrambi i casi, una vaga tendenza all’uxoricidio. Pochi anni più tardi, il regista inglese tornerà sul tema con Notorious (1946): la vittima, sacrificata questa volta per il bene della patria e dell’umanità, ha le fattezze di Ingrid Bergman, ma a salvarla questa volta c’è qualcuno che la ama davvero e ha i tratti di Cary Grant. Anche Fritz Lang, con Dietro la porta chiusa (1947), offrì un esempio notevole in tale direzione; la protagonista era Joan Bennett: il marito nutriva un’insana passione per la ricostruzione delle scene di delitti celebri, ma ne aveva tenuto debitamente all’oscuro la consorte, lasciando che lei lo scoprisse da sola, vagando di notte per casa.
Di matrimoni fondati sulla menzogna ne abbiamo visti tanti, al cinema, finché – più di Bergman poté Kubrick – ci siamo convinti, con Eyes Wide Shut, che il vero fascino del matrimonio “è che rende l’inganno una necessità per le due parti”. Lo sentiamo dire, all’inizio del film, al fascinoso signore ungherese che ci prova con Nicole Kidman alla festa prenatalizia cui i coniugi Harford partecipano; al ritorno a casa, marito e moglie sperimenteranno che il brizzolato corteggiatore aveva ragione.
È per questo che, quando abbiamo visto Gone Girl, l’ultimo film di David Fincher, abbiamo avuto un moto di perplessità di fronte al titolo italiano, arricchito della discutibile aggiunta L’amore bugiardo (così è uscito da noi il libro: i titoli dei libri si traducono ancora, spesso arbitrariamente, a differenza di quelli dei film, che si doppiano soltanto). Spiace per Gillian Flynn, autrice del romanzo e sceneggiatrice del film: se gli editor di Flaubert e di Tolstoj avevano scartato l’idea di ribattezzare così Madame Bovary e Anna Karenina, una qualche ragione ci sarà pure.
Quando poi abbiamo letto delle accuse di misoginia rivolte all’opera nel suo complesso (libro+film), abbiamo tremato di fronte alla sensazione di non aver colto, per l’ennesima volta, il messaggio dell’opera. Passi per Fincher, la cui filmografia, guardata retrospettivamente, già puzzava di disprezzo per il genere femminile, da Fight Club a Uomini che odiano le donne, per non parlare di The Social Network (il misogino Zuckerberg crea l’antenato di Facebook dopo esser stato lasciato dalla ragazza mettendo in rete le foto delle ragazze di Harvard da far votare ai maschi dell’università). Passi per Fincher, si diceva, che entra nel prestigioso club dei registi misogini, nel quale sono stati ammessi, per meriti artistici o biografici, autori del calibro di Chaplin, Peckinpah, Fellini, Ferreri, Monicelli, Risi, Germi, Argento (qualcuno gli ha rimproverato la preferenza per le donne assassine), oltre ai già citati Hitchcock e Kubrick. Quanto a Gillian Flynn, però, potrebbe essere imbarazzante l’essersi ritrovata, unica donna o quasi, in compagnia di tanti scrittori maschi che nel corso dei secoli si sono guadagnati l’infamante epiteto: da Euripide a Giovenale, da Tolstoj a Gadda, da Simenon a Philip Roth (persino Fabio Volo ha dovuto rilasciare interviste per allontanare da sé cotanto stigma).
L’interrogativo, insomma, ci ha perseguitato per giorni: Gone girl è un film sulle menzogne del matrimonio o è semplicemente un film misogino?
Poi abbiamo visto Big Eyes di Tim Burton, ricostruzione della storia vera dei coniugi Walter e Margaret Keane, e siamo stati tentati a lungo di inserire nella lista nera anche il regista e gli sceneggiatori, Scott Alexander e Larry Karaszewski, già autori di Ed Wood, a sua volta biopic sul “peggior regista mai esistito” (peggiore sì ma forse difficilmente accusabile di misoginia, vista la sua passione per i golfini femminili di angora). Abbiamo tremato quando Christoph Waltz, nei panni di Walter, giustifica la menzogna su cui costruisce il suo successo (spacciarsi per autore dei quadri, orrendi ma di grande popolarità, dipinti dalla moglie) con la seguente affermazione: “L’arte prodotta da donne non vende”. Per fortuna Amy Adams, alias Margaret, a lungo complice del marito, decide a un certo punto di dire basta alle continue bugie (e alle conseguenti degenerazioni del rapporto coniugale), fuggendo alle Hawaii, diventando testimone di Geova e facendo causa al consorte. Rosamund Pike, la moglie di Ben Affleck in Gone Girl, aveva reagito decisamente peggio alle intemperanze dello sposo. Il che, peraltro, dovrebbe segnare un punto a favore della realtà, meno misogina rispetto alla fantasia sfrenata e corruttrice di autrici e registi di thriller.
Riconciliati con la parità di genere grazie al finale di Big Eyes, abbiamo infine deciso di riporre per il momento il bilancino del politicamente corretto, sperando di aver capito la lezione una volta per tutte: d’ora in poi, se proprio non vorranno raccontarci storie coniugali edificanti, tutte fedeltà, onestà e sincerità, ci aspettiamo quantomeno che vengano banditi mariti che tradiscono e ne escono bene e mogli che si discostino dall’icona rassicurante della vittima innocente, e perciò simbolicamente catartica, della brutalità maschile. Di matrimoni fondati sulla menzogna (al cinema) ne abbiamo visti troppi.
Roberto Mandile