Si aprivano gli anni ’90, i meno giovani ricorderanno le manifestazioni di protesta, i flash mob, le provocazioni degli attivisti di Act Up-Paris. L’associazione, nata il 26 giugno del 1989, nell’imminenza della parata del Gay Pride parigino, ha lottato per anni contro le industrie farmaceutiche e l’establishment politico, ma anche religioso, colpevoli di mancata sensibilizzazione di fronte al proliferare dall’HIV. Un silenzio insopportabile quello delle istituzioni che hanno lasciato che l’epidemia proliferasse, che le infezioni moltiplicassero i morti, mentre si diffondeva l’equivoco che la sieropositività toccasse solo omosessuali, drogati e prostitute. I membri di Act Up-Paris con le loro magliette nere in cui si distingueva un acceso triangolo rosa con il vertice in alto, capovolgendo il simbolo che etichettava i gay deportati nei campi nazisti, sono usciti coraggiosamente dall’invisibilità da condannati a morte, convinti di poter arginare la strage con la semplice informazione, che significava all’ora (e significa adesso) fare prevenzione.
Il film di Robin Campillo è un’istantanea di quel periodo storico. Parte dalle lunghe, spesso infuocate, assemblee dei membri dell’associazione, in cui si pianificavano azioni eclatanti e, al tempo stesso, si metteva al centro l’etica delle stesse azioni, per focalizzarsi successivamente sul dramma umano di alcuni degli attori principali del movimento: ad esempio Sean (Nahuel Pérez Biscayart), uno dei più radicali militanti, che si lega in intensa storia d’amore con Nathan (Arnaud Valois), condividendo le battagliee ma, soprattutto, disperatamente, l’attaccamento alla vita.
Il regista sceglie consapevolmente di dividere in due il suo film, così che 120 battiti al minuto (vincitore a Cannes del Grand Prix) si trasforma da un quasi documentario sulla scena francese nella lotta all’AIDS, a un dramma da camera, comprimendo la coralità polifonica della prima parte nel personaggio di Sean, a costruire quasi un teorema che avvalori le ragioni del movimento. Il corpo sempre più magro del giovane attivista non è solo fenomenologia di un calvario straziante in chiave melodrammatica, come poteva essere l’Andrew Beckett di Tom Hanks in Philadelphia (1993); si erge invece a simbolo di tutti i corpi malati di giovanissimi, anche adolescenti, anche etero, nonostante l’ignorante pensiero comune. Il letto d’ospedale, le pastiglie, le trasfusioni concretizzano l’aleggiare della morte che incombe scopertamente sui dibattiti dell’Act Up-Paris e sulle azioni più estreme, quando i giovani arrabbiati si armano di gavettoni di sangue finto o si stendono in strada fingendosi corpi morti, il cosiddetto “die-in”.
Campillo, che nel movimento ci entra nel 1992, definisce perfettamente i termini della protesta, descrive le ambiguità dell’establishment ma anche le criticità del movimento, a volte diviso su posizioni di compromesso; afferra il clima dei primi anni ’90, sulle note elettroniche del French Touch, descrivendo le fragili vite dei suoi protagonisti per svuotare d’aria stantia i luoghi comuni sulle comunità omosessuali. I dibattiti, nella loro lunghezza, non paiono mai ridondanti (il regista fu sceneggiatore de La classe, film costruito sui confronti verbali). L’amore, il sesso, la gioia di liberare il corpo si fa sempre racconto di vita e speranza, anche se la seconda parte rischia in qualche passaggio di scivolare nella retorica dei film sui malati terminali.
Una domanda: riuscirà questo film a riaccendere i riflettori sul problema AIDS? Perché questa rimozione, oggi, 2017, è ancora più colpevole del silenzio imbarazzato di chi cercava di orientarsi trent’anni fa. Il virus uccide ancora, senza distinzioni, più di prima, in ogni angolo di mondo.
Vera Mandusich
120 battiti al minuto
Regia e montaggio: Robin Campillo. Sceneggiatura: Robin Campillo, Philippe Mangeot. Fotografia: Jeanne Lapoirie. Musica: Arnaud Rebotini. Interpreti: Nahuel Pérez Biscayart, Adèle Haenel, Arnaud Valois, Antoine Reinartz, Félix Maritaud, Ariel Borenstein. Origine: Francia, 2017. Durata: 144′.